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No al rimborso delle spese per gli interventi di sistemazione della casa coniugale ricevuta in comodato gratuito

Abstract


Investire i soldi in casa d’altri non sempre dà diritto a ricevere dal proprietario un rimborso o un indennizzo. Ignorare questo rischio può portare allo spiacevole epilogo di perdere il diritto di godere dell’immobile e l’investimento fatto. Ecco un caso in cui ciò può verificarsi.

Il caso


Se un parente stretto (es. un genitore, un nonno) è proprietario di un immobile che non gode in altro modo, può capitare che lo metta gratuitamente a disposizione dei futuri coniugi affinché questi lo destinino a propria casa coniugale.
Gli sposi solitamente si fanno carico dei costi per i vari interventi di sistemazione della casa: vuoi perché l’immobile necessita effettivamente di manutenzione vuoi semplicemente per meglio adeguarlo alle esigenze della nuova famiglia.
E ben può essere che a seguito di tali interventi, soprattutto se sono ingenti sotto il profilo economico, il valore dell’immobile ci guadagni e magari anche parecchio.
Tutto quanto sopra, assai di frequente avviene senza troppe formalità. Al più, le parti formalizzano la concessione in comodato dell’immobile, ma più raramente proprietario e sposi decidono di prevedere una regolamentazione delle spese per la sistemazione dell’abitazione.

La regola

L’immobile concesso in comodato per essere destinato a casa coniugale non può essere chiesto in restituzione dal proprietario per tutto il tempo in cui mantiene questa destinazione, quindi finché dura il matrimonio oppure, a prescindere dal perdurare del matrimonio, finché debba essere salvaguardato il diritto di abitazione della prole in quella casa.
Per cui, se il matrimonio ha una lunga durata o vi è un perdurante diritto della prole di godere l’immobile, l’investimento fatto dagli sposi per la sistemazione della casa può considerarsi ammortizzato dal godimento e ciò soprattutto se le cifre spese sono state contenute e gli interventi realizzati non eccessivamente invasivi.


Il problema


In assenza di figli in favore dei quali debba essere tutelato il diritto di abitazione in quell’immobile, se si verifica la separazione dei coniugi oppure il decesso di uno di essi, viene meno la destinazione dell’immobile a casa coniugale. Ciò significa che il proprietario potrà reclamare in restituzione l’immobile.
Se quindi l’immobile dovesse essere restituito al proprietario dopo un breve godimento, l’investimento fatto dai coniugi per sistemare la casa coniugale potrebbe costituire un problema: i coniugi separati o uno di essi oppure il coniuge superstite, dopo aver perso il diritto a godere dell’immobile, infatti, cercheranno almeno di recuperare parte dei soldi investiti nella casa coniugale reclamando il rimborso di quanto speso o un indennizzo per il maggior valore acquisito dalla abitazione.
Spetta il rimborso?
Il proprietario può ricevere in restituzione un immobile che ha ora un maggior valore grazie agli interventi operati dai coniugi e nulla dovere a questi a titolo di indennizzo?

La normativa in materia di comodato (art. 1808 c.c.) e la giurisprudenza sono chiare: il comodatario ha diritto a vedersi rimborsate solo le spese sostenute per per far fronte ad improcrastinabili esigenze di conservazione della cosa. Le spese sostenute per altre ragioni, anche se comportano un miglioramento dell’immobile, non danno diritto ad alcuna forma di rimborso o indennizzo.
I coniugi che decidono di sostenere delle spese di manutenzione per ragioni diverse da quelle di conservazione della casa, quindi, lo fanno nel loro esclusivo interesse e devono sapere che non potranno poi reclamarne il rimborso o un indennizzo dal proprietario. Del maggior valore acquisito dall’immobile potrà quindi godere il proprietario senza dovere alcun corrispettivo.


Il rimedio


Come possono pertanto tutelarsi i coniugi che decidono di investire del denaro in interventi di sistemazione della casa coniugale di cui godono in forza di un contratto di comodato gratuito?
Una buona soluzione potrebbe essere quella di redigere una scrittura privata che anzitutto preveda e poi regolamenti il diritto di rimborso o di indennizzo in favore dei coniugi per il caso di rilascio della casa coniugale se questa perdesse la sua destinazione. L’utilità della scrittura non sarebbe solo quella di definire l’esistenza del diritto al rimborso o all’indennizzo, ma anche quella di fare chiarezza sulla tipologia dei lavori eseguiti e sul loro ammontare.
Ma attenzione: questa scrittura privata potrebbe tornare utile anche nel caso in cui, senza voler essere per forza pessimisti, i coniugi decidessero semplicemente di cambiare casa e trasferirsi altrove. Anche in questo caso, infatti, a fronte di un investimento consistente e di un godimento breve, potrebbe – in vista del rilascio – porsi il problema di un rimborso o indennizzo.


Per approfondimenti, consulenza ed assistenza sull’argomento, lo Studio Legale Poggi è a disposizione all’indirizzo mail info@avvpoggi.it.

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Casa pagata da un solo coniuge ma costruita sul terreno di proprietà dell’altro coniuge

Se uno dei due coniugi è proprietario di un terreno edificabile, è assai probabile che la coppia decida di costruirvi sopra un immobile da destinare a casa coniugale, oppure a seconda casa, o magari anche solo come investimento.
Se l’immobile viene costruito a spese del coniuge non proprietario del terreno, a chi apparterrà la casa?
Verrebbe da dire, a chi l’ha pagata.
Ma è proprio così?

Il principio: chi è proprietario del terreno diventa proprietario anche di ciò che ci viene costruito sopra.

Per legge (art. 934 c.c.) qualunque costruzione edificata sopra il suolo appartiene al proprietario di questo.
Il proprietario di un terreno, in quanto tale, diviene così proprietario anche di ciò che ci sta già sopra o che verrà successivamente costruito sopra.
L’estensione del diritto di proprietà dal terreno a ciò che vi sta sopra è automatico ed opera per il solo fatto della avvenuta incorporazione di un bene materiale (fabbricato) al suolo.
Giuridicamente si parla di accessione.

L’accessione nei rapporti tra coniugi.

Se il soggetto proprietario del terreno e quello che paga la costruzione dell’edificio sono coniugi, c’è qualche eccezione alla regola della accessione?
La questione si pone con riguardo ai coniugi in regime di comunione legale dei beni nel caso in cui il terreno sia di proprietà esclusiva di uno solo di essi e, in costanza di matrimonio, venga edificata sopra quel terreno una casa a spese, però, dell’altro coniuge.
Poiché l’acquisto della proprietà per accessione non richiede alcuna manifestazione di volontà e poiché la normativa che disciplina la comunione legale tra i coniugi non prevede una deroga alla disciplina generale della accessione, il coniuge proprietario del terreno diventerà automaticamente anche proprietario dell’edificio che durante il matrimonio sia stato costruito sopra quel terreno e ciò a prescindere dalla provenienza dei danari impiegati per la costruzione.

La tutela che spetta a chi ha costruito la casa a proprie spese sul terreno di proprietà esclusiva di un altro soggetto.

Se l’aver costruito a proprie spese la casa non consente al coniuge di esserne riconosciuto proprietario, ciò non significa che questo sia privo di una tutela.

La tutela gli riconosce un diritto di credito nei confronti dell’altro coniuge che, in quanto proprietario del terreno, sia divenuto anche proprietario del fabbricato.

E qui, però, si profilano altre problematiche.

Anzitutto, in termini di prova.

Il coniuge che afferma che l’immobile sia stato costruito con i suoi soldi, infatti, dovrà dare dimostrazione degli esborsi personalmente sostenuti a tal fine e non potrà quindi invocare un generico diritto di credito derivante dal regime patrimoniale della comunione.

Sarà quindi bene tenere traccia documentale di tutti i pagamenti eseguiti e delle relative causali.

Altro problema, e non di poco conto, è poi quello di ricevere effettivamente il pagamento del credito.

Non è infatti detto che il coniuge che deve il rimborso disponga della liquidità sufficiente.

Certo, l’immobile potrebbe essere aggredito.

Ma se nel frattempo l’immobile fosse stato alienato o non fosse conveniente aggredirlo ad esempio perché ipotecato?

Oltre al giudizio per vedersi riconosciuto il diritto di credito, si rischia di doverne instaurare un altro per dare (forse) esecuzione a quel credito.

Il consiglio in più.

Vedersi riconosciuto un diritto non equivale quindi a vederlo soddisfatto.

Così se ci si attiva per tutelare il diritto di credito a distanza di anni e per di più quando i rapporti tra i coniugi si sono deteriorati, il rischio è quello di rimanere senza l’immobile e di rimetterci i soldi investiti nella sua costruzione.

Molto più tutelante sarebbe quindi muoversi in anticipo e vedersi riconosciuta la proprietà dell’immobile.

Come?

Ad esempio, disponendo con un atto scritto la rinuncia all’accessione da parte del coniuge proprietario del fondo e contestualmente riconoscendo la proprietà della costruzione in corso in capo all’altro coniuge che se ne sta facendo carico.

Oppure, se l’immobile è stato realizzato, disporre (o prevedere quantomeno un impegno a disporre) il trasferimento della sua proprietà dal coniuge che ne è divenuto proprietario per accessione all’altro che ha sostenuto i costi per la sua costruzione.

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Proprietà, diritto di usufrutto e diritto di abitazione: tutela e regolamentazione di rapporti economici e patrimoniali tra coniugi

Vuoi tutelare il tuo coniuge assicurandogli che, se tu non ci sarai più o non sarai più in grado di provvedere a lui/lei, non gli/le manchi una casa in cui abitare senza dover sostenere esborsi per acquistarla o affittarla.

Oppure devi riequilibrare i rapporti economici con il tuo coniuge.

O ancora, devi regolamentare i rapporti economici e patrimoniali con il tuo (ex) coniuge nel corso di un procedimento di separazione o di divorzio.

Quale sia la finalità, intendi perseguirla disponendo in favore del tuo coniuge di un immobile di cui sei proprietario.

A seconda del grado di tutela che hai in animo di offrire al tuo coniuge e/o della ragione (solo economica o anche affettiva) alla base di questa tua decisione, si prospettano varie soluzioni.

Vediamole.

1. Il trasferimento della proprietà dell’immobile

La più ampia forma di tutela è certamente rappresentata dal trasferimento del diritto di proprietà dell’immobile.

Questo caso si realizza quando un coniuge trasferisce all’altro la proprietà di un immobile di cui è già proprietario (ovviamente senza richiedere alcun corrispettivo) ma anche quando un coniuge paga con propri soldi il prezzo di un immobile il cui acquisto si perfeziona definitivamente in capo all’altro.

La piena ed esclusiva proprietà di un immobile consente al suo proprietario di poterne liberamente disporre.

Così, se si tratta di un immobile ad uso abitativo, il coniuge, che grazie alla disposizione dell’altro ne è divenuto proprietario, potrà decidere se abitarlo personalmente oppure alienarlo o ancora concederlo in locazione.

L’intestazione di una proprietà immobiliare, quindi, offre la maggiore tutela perché non solo garantisce una casa in cui abitare ma – al bisogno – il coniuge beneficiario potrebbe da quel bene ricavare liquidità o una rendita.

Ovviamente questa disposizione è anche quella che importa il maggior sacrificio per il patrimonio del coniuge disponente: l’immobile, infatti, esce definitivamente dalla sua sfera patrimoniale per entrare in quella di un altro soggetto.

2. La costituzione del diritto di usufrutto

Il diritto di usufrutto è il diritto di un soggetto (che si chiama usufruttuario) di godere di un immobile di proprietà di un altro soggetto (che si chiama nudo proprietario) e di raccoglierne i frutti, salvo l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene.

Riconoscendo il diritto di usufrutto in favore dell’altro coniuge su un proprio immobile, quindi, non ci si spoglia della proprietà, ma questa è nuda, perché viene privata del possesso e del godimento che passano in capo all’usufruttuario.

Il coniuge che si vede riconosciuto il diritto di usufrutto acquisisce quindi il possesso dell’immobile e ne può godere ad esempio abitandolo se si tratta di un immobile ad uso abitativo, oppure cedendo il proprio diritto a terzi (se ciò non gli è stato vietato dal titolo costitutivo del diritto), o locando il bene, concedendo ipoteca e reclamando un’indennità alla cessazione dell’usufrutto per le migliorie eventualmente apportate al bene stesso.

Alla morte dell’usufruttuario, il diritto di usufrutto si estingue e la nuda proprietà dell’immobile torna ad essere piena: possesso e godimento tornano quindi in capo al proprietario.

Certo, l’usufruttuario non potrà alienare l’immobile, ma anche questa soluzione assicura un’ampia tutela al coniuge usufruttuario: per tutta la durata della sua vita, infatti, potrà goderne abitandolo o persino mettendolo a reddito ad esempio con un contratto di affitto.

E il sacrificio del patrimonio del coniuge proprietario è temporaneo.

3. Il diritto di abitazione

E’ il diritto di abitare un immobile.

Il diritto di abitazione spetta al suo titolare e alla sua famiglia, i quali potranno alloggiare nell’immobile limitatamente ai propri bisogni.
Quindi, se si tratta di un immobile molto grande, non è detto che il diritto si estenda all’intero immobile.

In caso di coniugi, spetta per legge il diritto di abitazione sulla casa coniugale in favore del coniuge del proprietario defunto.

Cionondimeno, può tornare utile questo diritto se si vuole tutelare il coniuge a prescindere dal proprio decesso oppure per regolamentare i rapporti economici e patrimoniali tra coniugi in sede di separazione o divorzio o ancora se il diritto non riguarda la casa coniugale.

Il diritto esisterà finché il suo titolare abiterà nell’immobile: ciò significa che si estinguerà alla morte del beneficiario oppure se il beneficiario cesserà di abitarvi.

Viene da sé, quindi, che il diritto di abitazione non potrà essere ceduto e che dell’immobile non potrà in alcun modo disporsi.

Il consiglio in più

La scelta tra una delle soluzioni sopra elencate dipende certamente dal grado di tutela che un coniuge vuole offrire all’altro.
Attenzione però.
Oltre a valutazioni soggettive ed economiche legate ai rapporti tra i coniugi, occorre tenere in debita considerazione – laddove ve ne fossero – i diritti degli eredi del coniuge disponente.
A fronte, ad esempio, di un patrimonio modesto, il trasferimento della intera proprietà di un immobile potrebbe ledere la quota di legittima spettante agli eredi con il conseguente rischio per il coniuge beneficiario di subire un’impugnazione dell’atto di trasferimento. Meglio allora sarebbe, in un tale caso, ad esempio optare per il diritto di abitazione: più modesto, certo, ma proprio per tale ragione magari più sicuro perché porrebbe al riparo dal rischio di ledere la quota di legittima spettante agli altri eredi.

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Coniugi in separazione dei beni: immobile pagato per intero da uno di essi ma intestato all’altro

Il caso

Capita sovente, nei rapporti tra coniugi, che un immobile sia acquistato utilizzando i soldi di uno solo di essi ma venga intestato in parte o addirittura per l’intero all’altro coniuge ancorché questo non abbia sostenuto alcun esborso con riguardo a quell’immobile.

In questo modo le parti intendono regolamentare determinati rapporti economici tra loro pendenti oppure gestire una certa situazione patrimoniale che riguarda entrambi oppure uno solo di essi.

Due scenari

A.- Se l’intestazione in favore di un coniuge corrisponde alla effettiva volontà di trasferire a quest’ultimo un bene che rimanga definitivamente nel suo patrimonio, evidentemente non si porranno problemi.

L’atto così posto in essere tra i due coniugi, infatti, coincide esattamente con la regolamentazione che le parti volevano realizzare a prescindere dalle vicende riferibili al legame matrimoniale. 

B.- Ma la maggior parte delle volte, il coniuge che paga il prezzo dell’immobile pur non divenendone proprietario, in realtà non intende rinunciare a questo bene. Tant’è, infatti, che è lui ad amministrarlo. Il coniuge intestatario, invece, pur essendone formalmente il proprietario, non può disporre dell’immobile, o meglio, non ne può liberamente disporre. 

In questi casi si assiste ad una intestazione fittizia. 

I coniugi hanno cioè inteso acquistare un immobile ma hanno posto in essere una simulazione con riguardo al soggetto acquirente.

Per tale ragione la compravendita è solitamente accompagnata anche da un accordo tra i coniugi circa i tempi e le modalità del trasferimento dell’immobile in capo al coniuge che l’ha pagato.

Se i coniugi andranno sempre d’amore e d’accordo, non ci saranno problemi neppure nelle questioni relative alla gestione della intestazione di quell’immobile. 

Ma se invece l’amore finisse e i coniugi iniziassero a litigare? Che ne sarà di quell’immobile?

In caso di separazione, è assai probabile che una delle prime cose che farà il coniuge che ha pagato l’intero prezzo, sarà quella di reclamarne la piena ed esclusiva proprietà o il rimborso del prezzo a suo tempo corrisposto.

Ma ne ha diritto?

Volontà e forma degli atti

Per rispondere a questa domanda occorre avere riguardo agli atti posti in essere dalle parti e precisamente a come esse hanno formalizzato, cioè messo nero su bianco, le loro volontà.

Poniamo il caso che i coniugi avessero stabilito che il coniuge beneficiario avrebbe dovuto restituire la proprietà all’altro quando ciò gli fosse stato richiesto.

Se le parti, a fronte di una siffatta intesa, si fossero però limitate ad intestare l’immobile a favore del coniuge che nulla ha pagato e solo verbalmente si fossero accordate per il futuro trasferimento in capo al coniuge che ha corrisposto l’intero prezzo, a quest’ultimo, purtroppo, non spetterebbe alcuna tutela.

La prova di aver pagato l’intero prezzo con denaro proprio non è sufficiente, così come non vale la prova dell’accordo circa la restituzione dell’immobile fornita attraverso le testimonianze.

Per legge, infatti, se la simulazione, quale è l’intestazione fittizia, riguarda un contratto che deve avere la forma scritta ad substantiam (es. compravendite immobiliari) anche la dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto in tutto o in parte diverso da quello sottoscritto deve avvenire per iscritto.

L’atto dal quale risulti l’intento comune delle parti di dare vita ad un contratto diverso da quello che è stato concluso si chiama controdichiarazione.

Per cui, se un coniuge paga l’intero prezzo di acquisto ma l’immobile viene fittiziamente intestato all’altro coniuge, il primo, per garantirsi il diritto di reclamare in restituzione l’immobile dovrà sottoscrivere con l’altro coniuge una controdichiarazione da cui risulti la reale volontà delle parti rispetto all’intestazione di quell’immobile.

In mancanza della prova scritta contenuta nella controdichiarazione, il coniuge che ha disposto in favore dell’altro non potrà avere alcuna tutela.

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Il condominio e la questione del diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni

Il caso

Capita sovente di rinvenire negli atti anche notarili e nei regolamenti una clausola mediante la quale viene concesso ad una singola unità immobiliare o comunque solo ad alcune l’uso esclusivo di un’area condominiale comune o di una porzione di essa. 

Si parla di diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni.

Ciò accade, ad esempio, con riguardo alle aree comuni adibite a cortile o a giardino e concesse in uso esclusivo ai condomini proprietari degli appartamenti al piano terra.

Si viene così a creare una situazione di questo tipo: uno o alcuni condomini acquisiscono attraverso un atto negoziale (contratto, regolamento condominiale, delibera assembleare) un diritto reale (perché è legato all’unità immobiliare e la segue) di uso esclusivo di una parte comune ma allo stesso tempo tutti gli altri condomini non si spogliano né del diritto di comproprietà né del loro diritto di uso sulla cosa comune, ancorché di fatto non ne possano più godere. A questi rimane sì un diritto di comproprietà svuotato però del suo nucleo fondamentale: l’uso, appunto.

Evidentemente qualcosa non torna.

Sul tema è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con una sentenza a Sezioni Unite (17 Dicembre 2020, n. 28972) facendo chiarezza e prendendo una posizione destinata a rivoluzionare (o forse meglio, ribaltare) ciò che è stato sinora.

Andiamo per ordine e capiamo perché il diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni non può legittimamente sussistere.  

L’uso delle parti comuni condominiali

Anzitutto: cosa si intende per uso delle parti comuni condominiali?

L’uso è la facoltà riconosciuta a ciascun condomino di servirsi di una parte comune, di trarre da essa delle utilità nel rispetto, ovviamente, della sua destinazione. 

L’uso è quindi uno dei modi attraverso i quali si esercita il diritto di proprietà dei condomini.

Ricordiamo, poi, che in forza dell’art. 1102 c.c., l’uso della cosa comune deve sempre rispettare il limite di non impedire agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

L’uso delle parti comuni tra i condomini dovrebbe così essere paritario, promiscuo e simultaneo.

Certo vi sono parti comuni (es. scale e ascensori) che per loro natura sono utilizzate in modo più intenso solo da alcuni condomini rispetto ad altri: il mancato paritario godimento è però compensato da un maggiore concorso alle spese a carico di chi fa della cosa comune un uso più intenso.

O ancora, vi sono parti comuni (es. posti auto nel cortile) che magari non possono essere godute simultaneamente da tutti i condomini, ciò nondimeno la turnazione nel godimento consente un uso paritario.   

Uso esclusivo e parti comuni

Quando si parla di uso esclusivo di parti comuni si intende, invece, che l’uso si concentra in capo ad uno o ad alcuni condomini soltanto.

In materia di condominio, troviamo solo una norma che prevede un uso esclusivo con riferimento a delle parti comuni. 

E’ l’art. 1126 c.c. che riguarda i lastrici solari e stabilisce che se l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico; gli altri due terzi sono invece a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno. 

L’art. 1126 c.c. attiene quindi ad una situazione particolare: i lastrici solari, infatti, svolgono una funzione necessaria di copertura dell’edificio e in quanto tali sono parti comuni. Essi, però, per la loro conformazione ed ubicazione possono essere oggetto di calpestio ma soltanto da parte di uno o alcuni condomini. Siffatto uso esclusivo del lastrico solare non priva gli altri condomini di alcunchè, perchè essi non vi potrebbero comunque di fatto accedere e in ogni caso viene conservato l’uso comune del lastrico solare che è quello di essere una copertura.

Stante la peculiarità della disciplina contenuta nell’art. 1126 c.c., tale norma non può prestare il fianco ad interpretazioni estensive e legittimare, con riferimento ad altre parti comuni condominiali (es. giardini, cortili), la costituzione di un diritto reale di uso esclusivo in favore di alcuni condomini.

L’uso esclusivo su parti comuni non può essere un diritto reale.

Appurato che nel nostro ordinamento non vi è una norma che prevede un diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni condominiali, qual è il fondamento giuridico del diritto di uso esclusivo su parti comuni di cui si legge nei contratti e nei regolamenti condominiali? 

Come può giustificarsi la totale compressione del godimento spettante ai condomini sulla cosa comune a fronte della creazione di un diritto reale di uso esclusivo in favore di uno o alcuni di essi? 

Se dunque non c’è una norma che lo contempli, il diritto di uso su parti comuni non può che essere il prodotto dell’autonomia negoziale.

Ma possono le parti prevedere la costituzione di un siffatto diritto?

Le Sezione Unite della Corte di Cassazione hanno dato una risposta negativa.

Il diritto di uso di cui si sta parlando viene considerato quale diritto reale (segue l’immobile) e pertanto, vertendo in materia di diritti reali, vanno considerati e rispettati due principi: quello del numerus clausus dei diritti reali e quello della tipicità di essi. 

Questi principi ci insegnano che solo la legge può istituire diritti reali e che i privati non possono incidere sul loro contenuto siccome previsto e disciplinato dalla legge.

Tale rigore trova la sua giustificazione nel fatto che i diritti reali seguono l’immobile e sono opponibili ai terzi. 

Consentire alle parti di creare diritti reali atipici, cioè diritti reali non previsti per legge, significherebbe vincolare non solo le parti ma anche terzi estranei (es. acquirenti) ad un diritto che rischia di non avere alcuna chiara regolamentazione, a scapito della certezza dei traffici giuridici (a maggior ragione se si considera che siffatto diritto non rientra tra quelli trascrivibili).

Poiché nel nostro ordinamento non è configurabile la costituzione di diritti reali al di fuori dei tipi tassativamente previsti dalla legge e poiché non vi è una norma che lo preveda, non può validamente riconoscersi un diritto reale di uso su parti comuni.

Che fare quindi con l’atto che ha previsto la costituzione di un diritto reale di uso su parti comuni? 

Se le parti hanno previsto un diritto di uso su parti comuni ma tale diritto, per le ragioni sopra spiegate, non è valido, che ne è dell’atto o della clausola che lo ha previsto?

Occorrerà verificare, caso per caso, quale era la volontà delle parti: limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante (nel qual caso l’atto o la clausola non potrebbe che essere travolti dall’invalidità), oppure trasferire la proprietà (nel qual caso, invece, l’atto o la clausola sarebbero salvi) .

Questa volontà può essere accertata facendo anzitutto riferimento al senso letterale delle parole. 

Al riguardo l’espressione “diritto di uso esclusivo” osterebbe ad una interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà.

Tuttavia, accanto al dato letterale, nell’interpretare la volontà delle parti occorre considerare anche ulteriori elementi, testuali ed extratestuali.

Così un’espressione apparentemente chiara perché parla di un diritto di uso, potrebbe non esserlo più se si considerassero altre dichiarazione contenute nello stesso atto o le condotte poste in essere dalle parti.

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Imu: nuovo orientamento per godere dell’esenzione. Occhio ai requisiti

Articolo scritto in collaborazione con il Dott. Andrea Eduardo Ratti

Introduzione

Con ordinanza n. 20130 in data 24/09/2020, la Cassazione Civile, Sezione VI^, ha stabilito che l’imposta municipale propria (IMU) non si applica all’abitazione principale ed alle sue pertinenze [solo] quando in essa il contribuente possessore vi dimori abitualmente e vi risieda anagraficamente insieme al suo nucleo familiare.

Dello stesso tenore, le più recenti sentenze della Sezione Tributaria in data 3 e 4 novembre 2020 e l’ordinanza n. 28534 del 15/12 scorso.

I citati provvedimento della S.C. applicano rigorosamente il dettato della norma primaria contenuta nell’art. 12, co. 2°, D.L. n. 201/2011 (vecchia IMU) in linea con il costante orientamento secondo il quale le norme agevolative devono essere interpretate restrittivamente.

Peraltro, anche la nuova IMU, disciplinata dall’art. 1, comma 741 della legge di bilancio 2019, ricalca il dettato della vecchia pur con le precisazioni che in seguito si vedranno.

Fin qua, quindi, niente di nuovo. Infatti, altre sentenze, prima di queste, avevano sostanzialmente affermato lo stesso principio (cfr., ex pluribus, Cass. 4166/2020, Cass. n. 4170/2020).

La novità dirompente della pronuncia di settembre sta nell’escludere l’agevolazione tutte le volte in cui non sono soddisfatti contemporaneamente per ogni singola abitazione presa in considerazione i presupposti richiesti dalla norma con il risultato che, laddove – come nel caso deciso dalla Corte – due coniugi abbiano residenze diverse, l’esenzione non spetti né all’uno né all’altro.

E’ stata sostanzialmente introdotta la scriminante dello “spacchettamento della famiglia”: se residenza e dimora dell’intero nucleo non coincidono l’esenzione non si applica per nessuna abitazione della famiglia.

Le conseguenze di un tale arresto si preannunciano severe.

Infatti, non sarà colpito e punito solo il contribuente che abbia voluto eludere la norma sull’imposizione fiscale dissociando opportunamente residenza e dimora, ma anche quello a favore del quale ricorrerebbero circostanze tali da giustificare una deroga al requisito del nucleo familiare almeno per una delle abitazioni.  

Una pronuncia come quella in esame, stesa senza operare i necessari distinguo, fa sorgere più di una perplessità.

Per questo, è prevedibile una lievitazione del contenzioso anche in considerazione dell’entità della ripresa fiscale per i cinque anni trascorsi che inevitabilmente seguirà all’applicazione di questo orientamento.

La norma vigente

La nuova IMU regolata dall’art. 1, comma 741 della legge di bilancio 2019, così dispone:

a) per fabbricato si intende l’unità immobiliare iscritta o da iscriversi nel catasto edilizio urbano con attribuzione di rendita catastale, considerandosi parte integrante del fabbricato l’area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza esclusivamente ai fini urbanistici, purché accatastata unitariamente;

 b) per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o da iscriversi nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile.

La disciplina della nuova Imu, quindi, prevede [solo] il caso in cui il nucleo familiare sia residente in immobili diversi nello stesso comune, esonerando dall’imposta solo una delle due abitazioni. Nulla però dice in ordine alle doppie case situate in comuni diversi (caso tipico quello dell’abitazione di villeggiatura in comune turistico ove il trasferimento della residenza di un componente del nucleo familiare – generalmente marito o moglie – ha finalità potenzialmente elusiva).

IMU – I requisiti nello specifico

L’abitazione principale è quella nella quale il contribuente dimora stabilmente e risiede anagraficamente insieme al suo nucleo familiare.

ABITAZIONE PRINCIPALE – la norma primaria chiarisce che trattasi dell’immobile non di lusso (sono quindi escluse le categorie catastali A/1, A/8 e A/9), iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio come unica unità immobiliare. Comprende le pertinenze.

DIMORA STABILE – è il luogo nel quale – di fatto – una persona abita e trascorre in maniera continuativa la propria vita personale. Non vi rientra il luogo di villeggiatura ma vi rientra l’abitazione dove si vive in forza di un contratto di locazione (si pensi allo studente universitario fuori sede).

RESIDENZA ANAGRAFICA – il codice civile all’art. 43 la definisce come il luogo dove si ha la dimora abituale (non stabile!) e, aggiunge la Cassazione, volontaria. La residenza è dichiarata all’anagrafe ed è certificabile.

Benchè vi sia l’obbligo di fissarla nel luogo nel quale si vive abitualmente pena la correzione d’ufficio delle iscrizioni anagrafiche esistenti e l’applicazione di sanzioni pecuniarie, può accadere, che la residenza anagrafica non coincida con la dimora abituale come è il caso del lavoratore che è costretto a spostarsi per motivi di trasferta. In teoria, tutte le volte che si cambia dimora abituale, si dovrebbe denunciare il cambio di residenza all’anagrafe. In pratica, assai spesso non lo si fa con il risultato che residenza e dimora abituale non coincidono.

A volte, la scelta di trasferire la residenza presso abitazione diversa da quella del nucleo familiare è [stata] proprio funzionale al godimento da parte di ciascuno dei coniugi della esenzione per abitazione principale sulla propria unità.  

NUCLEO FAMILIARE – Non esiste una definizione di questa locuzione ma si può affermare che il nucleo familiare è quello con cui il contribuente vive nello stesso alloggio. Designa anche la famiglia tradizionale e la persona fisica che (da sola) vive in una casa. Non sempre, coincide con la famiglia anagrafica che è quella che risulta dal certificato di stato di famiglia anagrafico.

Mentre nello stato di famiglia i componenti abitano tutti sotto lo stesso tetto, del nucleo famigliare fanno parte anche genitori e figli che abitano in città diverse con i figli che dipendono ancora dai genitori. Quindi: nel nucleo familiare rientra la famiglia anagrafica e i soggetti fiscalmente a carico anche se non conviventi.

Qualche esempio:

  1. i CONIUGI fanno sempre parte dello stesso nucleo familiare anche quando non risultano nello stesso stato di famiglia perché hanno residenze diverse;
  2. i CONIUGI SEPARATI DI FATTO fanno sempre parte dello stesso nucleo familiare;
  3. i FIGLI MINORI che convivono con uno dei genitori fanno parte del nucleo familiare del genitore con cui convivono anche se a carico del genitore con cui non convivono;
  4. i FIGLI MAGGIORENNI NON CONVIVENTI MA A CARICO DEI GENITORI, fanno parte del nucleo familiare dei genitori;
  5. altre PERSONE presenti nello stato di famiglia anagrafico (es.: genitore, suocero, …);
  6. le PERSONE A CARICO anche se non presenti nello stato di famiglia del dichiarante.

Ne segue che non fanno parte del nucleo familiare:

I.- il CONIUGE con residenza diversa dal quale il dichiarante sia legalmente separato o nei confronti del quale abbia proposto domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;

II.- il CONIUGE che abbia abbandonato il tetto coniugale quando sia stato accertato in sede giurisdizionale o amministrativa;

III.- il CONIUGE nei confronti del quale è stata proposta domanda di nullità del matrimonio;

IV.- i MINORI AFFIDATI A TERZI con provvedimento del Giudice;

V.- due CONVIVENTI ancorchè a carico dei genitori.

Nucleo familiare e reddito di cittadinanza

Vediamo come la locuzione nucleo familiare è definita dall’art. 2, co. 5 del Dl 4/2019 convertito con modificazioni nella L. 26/2019.

Ai fini del reddito di cittadinanza, i coniugi permangono nel medesimo nucleo anche a seguito di separazione o divorzio, qualora continuino a risiedere nella stessa abitazione; se la separazione o il divorzio sono avvenuti successivamente alla data del 1° settembre 2018, il cambio di residenza deve essere certificato da apposito verbale della polizia locale.

I componenti già facenti parte di un nucleo familiare come definito ai fini dell’ISEE, o del medesimo nucleo come definito ai fini anagrafici, continuano a farne parte ai fini dell’ISEE anche a seguito di variazioni anagrafiche, qualora continuino a risiedere nella medesima abitazione.

Il figlio maggiorenne non convivente con i genitori fa parte del nucleo familiare dei genitori esclusivamente quando è di età inferiore a 26 anni, è nella condizione di essere a loro carico a fini IRPEF, non è coniugato e non ha figli.

Tale definizione è applicata per una agevolazione reddituale e quindi non si può escludere sia applicabile anche per l’agevolazione ai fini IMU e, in tal senso, può essere di aiuto nell’interpretare la portata dell’espressione nucleo familiare.

L’incertezza della composizione del nucleo familiare

E’ evidente, a tutto voler concedere, come quello di nucleo familiare sia un concetto sfuggente ed insidioso.

Infatti, se applico i criteri di appartenenza o meno al nucleo famigliare come sopra delineati, ne possono venire fuori situazioni paradossali per cui a casi del tutto assimilabili a quelli per cui la Cassazione ha esplicitamente escluso il beneficio, lo stesso risulterebbe pacificamente ammesso.

Si pensi alla coppia non coniugata che pur dimori stabilmente sotto lo stesso tetto. Se i due mantenessero residenze anagrafiche diverse e ciascuno avesse un proprio stato di famiglia, nulla impedirebbe loro di godere (entrambi) dell’esenzione dall’IMU per la rispettiva abitazione.

Per converso, se una coppia di coniugi ha un figlio maggiorenne a carico ma non convivente con loro perché, per esempio, trasferitosi altrove per motivi di studio, la circostanza di non avere dimora abituale presso l’abitazione principale del contribuente escluderebbe il diritto all’esenzione. Si osserva che, teoricamente, il nucleo familiare è spacchettato per la dimora diversa del figlio, ma è evidente che nel caso di specie non sarebbe ravvisabile elusione alcuna.

Conclusioni

Il timore è che l’applicazione rigorosa e inflessibile di una norma che, per come scritta, di rigoroso ha poco, possa portare a distorsioni ingiustificate. Sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che chiarisca una volta per tutte la portata dei requisiti indispensabili per godere dell’esenzione.

Avv. Angela Poggi

Dott. Andrea Ratti

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Consigli Legali

Abitabilità/agibilità dell’immobile: quale grado di diligenza è richiesto al mediatore per evitare l’inadempimento contrattuale e il risarcimento dei danni all’acquirente.

Abstract
Quando il contratto di mediazione immobiliare può dirsi correttamente adempiuto da parte del mediatore? E a quali rischi va incontro il mediatore che non abbia adempiuto con diligenza all’incarico? Lo vediamo con particolare riferimento alla problematica della (mancata) abitabilità/agibilità dell’immobile da destinarsi ad uso abitativo oggetto di compravendita.

L’inadempimento di un’obbligazione contrattuale, si sa, obbliga la parte inadempiente alla restituzione di quanto ricevuto dall’altro contraente e, ove ravvisabile un danno, anche al suo risarcimento.
Ciò vale anche nel campo della mediazione immobiliare.

Un caso concreto


Prendiamo il caso di una agenzia immobiliare che abbia ricevuto l’incarico di assistere un acquirente nella ricerca di una nuova abitazione.
L’acquirente, per il tramite dell’agenzia, trova una villetta che fa al caso suo e sottoscrive così con il venditore un contratto preliminare di compravendita.
Il promissario acquirente corrisponde all’agenzia immobiliare la provvigione e al promittente venditore una caparra confirmatoria e un acconto sul prezzo.
La pratica viene quindi presa in carico dal notaio per la stipula del rogito.
E qui l’amara sorpresa: l’immobile presenta gravi irregolarità edilizie ed urbanistiche tanto da essere sprovvisto del certificato di abitabilità/agibilità.
Il promissario acquirente diffida il promittente venditore e l’agenzia immobiliare a porre in essere tutti gli adempimenti necessari a garantire la abitabilità dell’immobile.
Nè il promittente venditore nè l’agenzia immobiliare si attivano, per cui il promissario acquirente recede dal contratto preliminare e chiede la restituzione di quanto versato a titolo di acconto e il pagamento della caparra confirmatoria.
Poiché anche questa volta non c’è alcun riscontro, il promissario acquirente agisce in giudizio nei confronti del promittente venditore. Il Giudice, accertata la legittimità del recesso, condanna il promittente venditore alla corresponsione della caparra confirmatoria, alla restituzione dell’acconto e alla rifusione delle spese legali in favore del promissario acquirente.
Il promittente venditore, seppur condannato, nulla versa per cui il promissario acquirente agisce esecutivamente nei suoi confronti, ma l’iniziativa è infruttuosa.
Può il promissario acquirente ora rivalersi nei confronti dell’agenzia immobiliare? E se sì, cosa può reclamare dall’agenzia?

L’inadempimento contrattuale del mediatore immobiliare e il dovere di comunicazione


L’art. 1759 c.c. stabilisce a carico del mediatore il dovere di comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione ed alla sicurezza dell’affare e che possono influire sulla conclusione di esso.
Stante la sussistenza, a monte, dell’obbligo di comportarsi sempre secondo correttezza e buona fede, il dovere di riferire le circostanze rilevanti per la valutazione e la sicurezza dell’affare si estende anche al caso in cui si tratti di circostanze che l’agente avrebbe dovuto conoscere con l’uso della diligenza da lui ordinariamente esigibile.
Rientrano, ad esempio, tra le informazioni che il mediatore immobiliare deve dare alle parti quelle sull’esistenza di iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli.
Non rientrano, invece, nell’ordinaria diligenza le risultanze di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, a meno che non siano state oggetto di uno specifico incarico.

Il dovere di comunicazione riferito alla abitabilità dell’immobile


Il certificato di abitabilità/agibilità è un attestato che testimonia che un immobile è abitabile, ossia risponde ai requisiti di igiene, sicurezza e risparmio energetico.
Il certificato di abitabilità/agibilità serve per vivere all’interno di un immobile; comprare, vendere o affittare una casa o un locale commerciale; intraprendere qualsiasi attività economica all’interno dell’immobile; per ottenere il ricongiungimento familiare.
Il certificato di abitabilità/agibilità deve essere fornito dal proprietario di casa.
Venendo al caso specifico della abitabilità/agibilità dell’immobile, la giurisprudenza ravvisa una responsabilità del mediatore per mancata informazione circa la conseguibilità del relativo certificato nei soli casi in cui:
i) il mediatore abbia taciuto informazioni e circostanze delle quali era a conoscenza oppure abbia riferito circostanze in contrasto con quanto a sua conoscenza. Il che, riportato al caso concreto, significa che il mediatore era a conoscenza della mancanza del certificato di abitabilità/agibilità o di irregolarità edilizie ed urbane ma non lo abbia riferito al promissario acquirente oppure che abbia riferito che l’immobile era a norma;
ii) il mediatore sia stato espressamente incaricato dal committente o da uno dei committenti di procedere ad una verifica in merito al certificato di abitabilità, e non abbia adempiuto all’incarico oppure vi abbia adempiuto erroneamente.
L’ipotesi al punto ii) implica un inadempimento di un diverso ed ulteriore contratto rispetto a quello di mediazione.
Ma se manca una esplicita richiesta da parte del committente di verificare l’abitabilità/agibilità dell’immobile, quale è il grado di diligenza che deve rendere il mediatore in ordine a questo aspetto?
Ebbene, se l’incarico ha per oggetto il reperimento di un immobile ad uso abitativo, il mediatore è tenuto a riferire all’acquirente tutte le circostanze a lui note afferenti l’abitabilità/agibilità posto che questa rappresenta un elemento incidente sulla valutazione dell’affare.
Ne consegue che l’agenzia che sottace all’acquirente l’assenza di una caratteristica fondamentale dell’immobile, incorre nella responsabilità del mediatore ex art. 1759, I comma, c.c.

E chi paga i danni?


Veniamo ora ai danni.
Una volta accertato l’inadempimento da parte del mediatore, quale esborso questo deve prepararsi ad affrontare a titolo di risarcimento del danno patito dall’acquirente?
Certo il mediatore dovrà restituire la provvigione ricevuta.
Ma non solo.
Secondo la giurisprudenza, se il venditore, come nel caso che abbiamo considerato, non dovesse integralmente rifondere all’acquirente la parte di prezzo ricevuta, l’acquirente potrà reclamarne il rimborso all’agenzia immobiliare.
Ma non solo.
L’agente immobiliare sarà altresì tenuto a rifondere all’acquirente le spese legali da questo sostenute per tutte le iniziative promosse nei confronti del venditore a tutela del proprio credito e rivelatesi infruttuose.
Insomma, tutte le somme che l’acquirente non ha potuto recuperare dal venditore anche a titolo di rimborso delle spese necessarie per le attività giudiziali, possono essere poste a carico del mediatore atteso che tutte queste spese trovano la loro causa nell’inadempimento contrattuale dell’agente.

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Consigli Legali

Se il figlio minore si fa male, chi decide i termini dell’accordo per il risarcimento del danno?

Abstract

Quando occorre prendere delle decisioni che interessano i minori, si dà per scontato che i genitori abbiano la più ampia autonomia, o meglio, si dà per scontato che se tra i genitori vi sia l’accordo circa la decisione da assumere, il consenso da questi espresso in nome e per conto del figlio sia sufficiente a definire la vertenza. Ma è proprio così?

Il caso

Poniamo il caso di un minore che abbia subito una lesione ad es. a scuola, oppure per strada per colpa di un veicolo o ancora in seguito ad un’aggressione da parte di un’altra persona o di un animale. Occorre chiedere il risarcimento dei danni fisici e non provocati dalla lesione.

Chi può agire in nome e per conto del minore ai fini del risarcimento?

I genitori, certo, salvo ovviamente il caso in cui non sia stata limitata la loro responsabilità genitoriale.

Ma il danneggiante o comunque il terzo tenuto al ristoro del danno (es. compagnia di assicurazione) a cui i genitori del minore abbiano indirizzato la richiesta di risarcimento, può stare tranquillo e ritenere chiusa la vertenza se raggiunge e dà esecuzione ad un accordo transattivo accettato e sottoscritto dai genitori?

Le criticità

La decisione dei genitori potrebbe non tutelare il minore: la necessità di liquidità oppure una errata valutazione dell’entità del danno potrebbero, ad esempio, indurre i genitori ad accettare una proposta eccessivamente modesta ed insufficiente a coprire il danno presente e futuro patito dal minore. 

E ancora, posto che il risarcimento riguarda un danno patito dal minore, occorre anche essere sicuri che i genitori impieghino i soldi nel suo interesse

E’ quindi corretto domandarsi se sia necessario – a tutela del minore – un controllo da parte di un soggetto terzo (Giudice) circa il fatto che i termini della transazione siano idonei a ristorare il danno e le somme a tale titolo incassate saranno riservate al minore.

Il problema non è di poco conto perché se chi doveva risarcire il danno ha sì pagato ma, come si suol dire, ha pagato male (es. i genitori hanno destinato ad altro la somma spettante al minore) o poco, al danneggiante potrebbe essere chiesto di effettuare un altro pagamento (con il risultato di dover pagare due volte per il risarcimento del danno) o di integrare la somma dovuta a titolo di risarcimento.   

Di qui l’importanza di capire se e quando un accordo avente ad oggetto il risarcimento dei danni patiti dal minore possa considerarsi “tombale” con il solo consenso dei genitori e quando, invece, occorre integrarlo con l’autorizzazione da parte del Giudice.

Cosa ci dicono la legge e la giurisprudenza

L’art. 320 c.c. stabilisce che i genitori necessitano dell’autorizzazione del Giudice Tutelare se – in nome e per conto del figlio – devono, tra l’altro, riscuotere capitali e compiere atti di straordinaria amministrazione.

Questo significa anzitutto che non tutti gli atti che i genitori compiono in nome e per conto del minore e relativi al suo patrimonio necessitano di un’autorizzazione da parte del Giudice Tutelare. 

Solo alcuni, e precisamente quelli di straordinaria amministrazione.

Ma quali sono gli atti di straordinaria amministrazione?

Nell’art. 320 c.c. ne troviamo elencati alcuni (es. alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte; accettare o rinunziare ad eredità o legati; accettare donazioni; procedere allo scioglimento di comunioni; contrarre mutui o locazioni ultranovennali) ma questa elencazione non è esaustiva tant’è che l’art. 320 c.c. parla di altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.

Posto che la legge non precisa quali siano questi altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato vari criteri.

La scelta di un criterio piuttosto che di un altro è tutt’altro che una questione puramente teorica perché il risultato potrebbe essere quello di addivenire ad una differente qualificazione all’atto, con rilevanti conseguenze in termini di validità e definitività dello stesso.

La transazione: quando è atto di ordinaria amministrazione e quando è atto di straordinaria amministrazione

Circoscrivendo il discorso all’oggetto della presente trattazione, e quindi alla qualificazione come atto di ordinaria o straordinaria amministrazione della transazione avente ad oggetto il risarcimento del danno subito dal minore, possiamo dire che la giurisprudenza ha elaborato dei punti fermi.

Tale transazione costituisce atto di straordinaria amministrazione quando ha per oggetto un danno che, per la sua natura e entità, incide profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato (Cass. 4562/1997).

La transazione, quindi, in sé è un atto di ordinaria amministrazione che – al ricorrere di particolari circostanze – può assumere natura di atto straordinario.

Quali sono queste circostanze?

Il rapporto controverso, il suo contenuto ed i suoi effetti.

Rientrano, quindi, tra gli atti di straordinaria amministrazione quelle transazioni che possono pregiudicare il minore provocando una rilevante diminuzione del suo patrimonio.

In concreto, si tratta delle: 

  • transazioni che riguardano danni che hanno provocato al minore postumi invalidanti destinati a protrarsi per tutta la sua vita; 
  • transazioni che hanno un’incidenza economica di rilevante gravità sul patrimonio del minore anche e soprattutto se la transazione prevede una importante rinuncia rispetto alle pretese inizialmente avanzate in sede giudiziale o stragiudiziale;
  • transazioni che richiedono una valutazione complessa e difficile del danno e del pregiudizio che potrebbe patire il minore a seguito delle lesioni subite.

L’incasso di capitali spettanti al minore

Ricordiamoci, poi, che l’art. 320 c.c. dispone anche che i capitali non possono essere riscossi senza l’autorizzazione del Giudice Tutelare, il quale ne determina anche l’impiego.  

A prescindere, quindi, dalla questione relativa alla qualificazione dell’atto transattivo quale atto di ordinaria o straordinaria amministrazione, bisogna tener conto del fatto che vi è una norma che stabilisce che i genitori siano legittimati ad incassare, in nome e per conto del minore, i capitali a quest’ultimo spettanti, solo se vi è un’autorizzazione del Giudice in questo senso.

La riscossione di capitali è quindi un atto di straordinaria amministrazione.

E se manca l’autorizzazione del Giudice?

In difetto del provvedimento autorizzativo da parte del Giudice, si pone un problema non già di validità dell’atto transattivo o del pagamento, quanto di definitività e certezza: il minore, infatti, per il tramite di un curatore speciale ovvero personalmente una volta raggiunta la maggiore età, potrebbe contestare i termini dell’accordo e addirittura di non aver ricevuto il pagamento.

Norme a tutela del minore che pongono però anche il danneggiante al riparo dal rischio di future contestazioni circa i termini dell’accordo e il pagamento.  

L’art. 320 c.c. è una norma certamente concepita a tutela del minore: il Giudice verifica che la transazione risponda agli interessi del minore e che le somme incassate siano destinate al ristoro dei danni da questo subiti. 

Ma il rispetto di questa norma tutela anche il danneggiante. 

Innanzitutto, se la transazione ha superato il vaglio del Giudice, non potrà essere poi impugnata dal minore essendovi già stato un giudizio di rispondenza tra il suo contenuto e l’interesse del minore, eventualmente anche con riferimento alla accettazione di una proposta sensibilmente inferiore rispetto alla domanda. Il danneggiante si vede così garantita la definitività e certezza dell’accordo.

Ancora.

Il danneggiante paga correttamente non già perché paga a mani dei genitori, ma se questi sono stati autorizzati a ricevere il pagamento in nome e per conto del figlio.

L’autorizzazione pone quindi il danneggiante al riparo dal rischio di dover effettuare un nuovo pagamento nel caso in cui i genitori non avessero utilizzato il denaro a vantaggio del minore. Il danneggiante si vede così garantito l’effetto liberatorio del pagamento.

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Consigli Legali

Contratto di fideiussione conforme alle norme bancarie uniformi: è davvero tutto nullo?

Abstract: Sta tenendo banco, in questo periodo, una questione giuridica che ha, per il vero, origini risalenti ma che ancora oggi rischia di avere molte e travolgenti conseguenze con riguardo alle fideiussioni rilasciate in favore degli istituti di credito. Capiamo perché.

Le norme bancarie uniformi ABI 2003 e il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005

Le norme bancarie uniformi (NBU) erano degli schemi contrattuali predisposti dall’ABI (associazione di imprese che raggruppa la quasi totalità delle banche operanti sul
territorio nazionale per la tutela degli interessi dei propri membri) e da questa divulgati e caldamente raccomandati ai propri aderenti con il fine di uniformare le condizioni praticate dalle banche per le operazioni ed i contratti conclusi con la propria clientela.
La Banca d’Italia ha ritenuto che una siffatta condotta violasse l’art. 2, comma 2, della legge n. 287/1990 in quanto integrante la fattispecie dell’intesa tra imprese avente per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Alla declaratoria di illiceità per violazione della normativa antitrust è conseguita quella di nullità di tutta una serie di norme inserite dalle Banche – su indicazione dell’ABI – nelle condizioni generali dei contratti fatti sottoscrivere ai propri clienti.

Le condizioni generali uniformi applicate ai contratti di fideiussione

L’illiceità ha colpito anche diverse clausole disciplinanti i contratti di fideiussione (condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia delle operazioni bancarie; condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia di apertura di credito per importo
determinato; condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia di operazioni varie comportanti rischi).
La problematica è stata trattata per lo più con riguardo alla censura dello schema contrattuale della fideiussione omnibus che consiste nella prestazione della garanzia da parte del fideiussore a beneficio di qualunque obbligazione, presente e futura, del debitore di una banca.
Il provvedimento della Banca d’Italia censura però anche altri schemi contrattuali attinenti il rilascio della garanzia fideiussoria.
La giurisprudenza, sul punto, ha avuto modo di fare due importanti precisazioni:
la Banca d’Italia, nel censurare l’intesa ABI, ha fatto riferimento alle condizioni generali di contratto da applicare alla fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie in generale;
nulla vieta che un giudice, reputando uno schema ABI illegittimo per violazione dell’art. 2 Legge 287/1990, possa disattenderlo anche se detto schema non riguardi un rapporto di fideiussione omnibus.

Illiceità e nullità delle singole clausole: il problema della estensione della nullità all’intero contratto

Posto che deve ritenersi pacifica la nullità di quelle clausole che, in quanto conformi alle norme bancarie, violano l’art. 2 della Legge 287/1990, vi è da chiedersi come impatti la loro nullità sulla validità ed efficacia delle altre clausole contenute nel contratto di fideiussione.

Due sono gli scenari che possono prospettarsi:
– la nullità di una o più clausole provoca la nullità dell’intero contratto. Il contratto, quindi, in assenza delle clausole dichiarate nulle, non può sopravvivere;
– la nullità rimane confinata alle sole clausole nulle cosicché, per il resto, il contatto resiste e continua a vincolare le parti.

L’art. 1419 c.c. dispone che la nullità parziale di un contratto o di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è stata colpita dalla nullità.
L’estensione della nullità all’intero contratto a fronte di una nullità parziale o di singole clausole ha carattere eccezionale perché deroga al principio generale della conservazione del contratto.
Per quanto, la nullità di una clausola si potrà estendere all’intero contratto solo in presenza di una eccezione della parte che vi abbia interesse (senza quella clausola non avrebbe stipulato il contratto) oppure in presenza della nullità di una clausola attinente ad un elemento essenziale del negozio o ad una pattuizione legata alle altre da un rapporto di interdipendenza e inscindibilità.
Venendo al caso delle fideiussioni rilasciate in favore delle Banche, la giurisprudenza ha già avuto modo di esprimersi in punto estensione o meno della nullità all’intero contratto di fideiussione nel caso in cui questo contenga clausole conformi a quelle ABI e quindi nulle per violazione dell’art. 2 Legge 287/1990.
Ad avviso della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 24044/2019) “avendo l’Autorità amministrativa circoscritto l’accertamento della illiceità per violazione dell’art. 2 della legge 287/1990 ad alcune specifiche clausole delle norme bancarie uniformi (NBU) trasfuse nelle dichiarazioni unilaterali predisposte dalla banca e rese in attuazione di intese illecite ai sensi dell’art. 2 della l. 10/10/1990, n. 287, ciò non esclude, né è incompatibile con il fatto che in concreto la nullità del contratto a valle debba valutarsi dal giudice alla stregua degli artt. 1418 e ss. cod. civ. e che possa trovare applicazione l’art. 1419 cod. civ. laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rinvenienti dalle intese illecite”.

La presenza, quindi, nel contratto di fideiussione di clausole nulle perché inserite dalla banca in violazione dell’art. 2 della legge 287/1990 non importa per ciò solo la nullità dell’intero contratto se le altre clausole non colpite dalla illiceità consentono ugualmente di soddisfare e dar corso alla regolamentazione del rapporto contrattuale sottoscritto dalle parti.

In difetto, quindi, di una intesa tra le parti circa l’estensione della nullità che ha colpito il contratto, sarà il giudice a stabilire se nel caso concreto il contratto dovrà intendersi travolto interamente dalla nullità (con l’effetto, quindi, di liberare i fideiussori da ogni obbligo verso la banca) oppure questa potrà intendersi contenuta alle sole clausole illecite per violazione dell’art. 2 legge 287/1990 (con l’effetto, quindi, di mantenere l’obbligazione di garanzia in capo ai fideiussori ad eccezione solo dei casi previsti dalle norme nulle).

Quali previsioni possono farsi?

Ogni decisione giurisprudenziale dovrà essere evidentemente considerata un caso a sé perché si basa su una valutazione strettamente legata alla fattispecie sottoposta all’esame del giudice che inevitabilmente tiene conto anche del comportamento posto in essere dalle parti.
Interessanti, al riguardo, sono le osservazioni svolte dal Tribunale di Matera con la sentenza del 06/07/2020 che ha deciso una causa originata da una opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento promossa dai fideiussori e dai debitori principali. Controparte era ovviamente un istituto di credito che aveva chiesto e ottenuto il decreto ingiuntivo contro il cliente/debitore principale ed i fideiussori di quest’ultimo.
L’impugnazione del provvedimento monitorio si fondava, tra l’altro, sulla violazione dell’art. 2 legge 287/1990 rinvenibile nel contratto di fideiussione.
Tre le clausole oggetto di censura: la clausola cosiddetta di sopravvivenza in forza della quale è prevista l’operatività della garanzia fideiussoria anche per il caso in cui l’istituto di credito fosse costretto a restituire delle somme a seguito dell’annullamento, revoca o inefficacia di pagamenti estintivi; la clausola cosiddetta di reviviscenza in forza della quale la garanzia fideiussoria opera anche nel caso in cui l’obbligazione principale fosse dichiarata invalida e la clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c.
Il giudice ha ritenuto che la nullità delle clausole di sopravvivenza e di reviviscenza dovesse nel caso di specie essere estesa all’intero contratto di fideiussione perché, in difetto di quelle clausole, l’istituto di credito mai avrebbe erogato il prestito al debitore principale.
La banca, invero, non si era limitata a chiedere una garanzia fideiussoria a tutela del proprio credito, ma aveva inteso rafforzare a tal punto la garanzia da determinare nel giudice la convinzione che quelle clausole avessero avuto funzione rilevante e fondamentale ai fini della concessione del prestito.
Conseguenza di ciò è che del debito è stato ritenuto responsabile il solo debitore principale con integrale liberazione dei fideiussori.
La banca, cioè, non solo non potrà reclamare alcun pagamento dai fideiussori nel caso in cui si verificasse una delle ipotesi previste dalle clausole di sopravvivenza e di reviviscenza, ma la nullità estesa all’intero contratto ha fatto venir meno ab origine l’obbligazione di garanzia.

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Consigli Legali

La pena pecuniaria in caso di violazioni al regolamento condominiale

Abstract

La riforma del condominio ha notevolmente innalzato la misura delle sanzioni pecuniarie che possono essere comminate dall’assemblea al condomino che contravviene ad una disposizione del regolamento condominiale. Diventa perciò assai importante stabilire come stendere il regolamento affinché la pena possa dissuadere dalla sua violazione.


La sentenza del Tribunale di Trani n. 942/2020 pronunciata in data 15/06/2020 offre l’occasione per fare il punto sulle pene private in materia di condominio dopo la riforma introdotta dalla L. 220/2012.
Questo contributo non mira tanto a ripercorrere il casus decisus quanto a trarre da esso e dalla giurisprudenza che sul tema ha preceduto la decisione in esame, dei principi che guidino l’estensore del regolamento condominiale affinchè esso metta nelle mani dell’amministratore uno strumento davvero utile ed efficace.
Altro tema interessante, infatti, è se la pervicace violazione delle norme condominiali tipica di alcune nostre realtà e sinonimo di noncuranza diffusa verso i vicini, possano o meno essere evitati o, quanto meno, contenuti sotto la minaccia di una sanzione pecuniaria e se vessare il portafoglio del condomino impenitente abbia efficacia dissuasiva superiore al rischio che il conflitto trasli dalla relazione alla procedura applicativa della sanzione.
Certamente, si può dire senza timore di essere smentiti, stendere il regolamento con cognizione di causa può aiutare a perseguire l’obiettivo del contenimento del contenzioso condominiale.

La norma

L’art. 70 disp. att. al cc stabilisce che “Per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad € 200 e, in caso di recidiva, fino ad € 800. La somma è devoluta al fondo di cui l’amministratore dispone per le spese ordinarie. L’irrogazione della sanzione è deliberata dall’assemblea con le maggioranze di cui al secondo comma dell’articolo 1136 del codice [ndr: maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio: 500 millesimi].”
Orbene.
Dal dato testuale discende, immediatamente ed in sintesi, che il regolamento di condominio che detta la regola cui i condomini devono uniformarsi, può prevedere una sanzione pecuniaria in caso di sua infrazione in misura non superiore all’importo massimo indicato nell’articolo in parola. Compito dell’assemblea è (solo) deliberarne l’irrogazione con le maggioranze specificate nella norma cui rimanda.
Sulla natura di questa sanzione si può anticipare che essa rientra nel novero delle pene private che sono sanzioni punitive aventi origine da un atto negoziale, inflitte da un soggetto privato dotato di potestà punitiva e che trovano applicazione in relazione ad una vicenda privata.
Essa ha natura eccezionale e vedremo in seguito quali sono le conseguenze che ciò comporta.
Ciò premesso, vediamo a quali condizioni può essere legittimamente inflitta la pena privata condominiale.

-I-

Regolamento condominiale

L’art. 70 delle disp. att. al cc parla di regolamento di condominio senza precisare quale ne debba essere la natura.
Dalla espressione letterale s’intende che la sanzione pecuniaria in parola può essere prevista come conseguenza della violazione tanto di una norma contrattuale quanto regolamentare con la conseguenza che la sanzione può essere stabilita non solo all’unanimità ma anche a maggioranza.
Tale riflessione sarebbe, del resto, in linea con la circostanza che l’art. 70 non è compreso tra le norme definite inderogabili dall’art. 72 disp. att. cc con il che la sanzione pecuniaria prevista da una norma regolamentare potrà essere modificata e perfino eliminata da una delibera a maggioranza.
Il principio è chiaramente enunciato da Cass. 9877/2012 di cui di seguito si riporta un importante passo: “Le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare; ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 cc comma 2
In sintesi: l’assemblea ha il potere di prevedere sanzioni per le infrazioni al regolamento di condominio e decidere le questioni connesse con la maggioranza e non con l’unanimità, salvo che si determini una limitazione di diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni o si attribuisca ad alcuni condomini maggiori diritti rispetto ad altri.
Superato questo scoglio, vediamo quali sono i limiti dell’assemblea con riguardo al contenuto della pena conseguente l’infrazione della norma regolamentare.

-II-

Obbligatorietà del regolamento limitata ai condomini

Scopo del regolamento è quello di disciplinare la gestione delle parti comuni condominiali e di dettare i criteri per il riparto tra i condomini delle relative spese.
E’ il prodotto della autonomia contrattuale dei partecipanti al condominio e quindi può vincolare solo i condomini.
Ne consegue che la sanzione che, come anzidetto, è pena privata di applicazione restrittiva e quindi limitata a chi sia tenuto all’osservanza del regolamento, può essere inflitta solo al condomino.
Il conduttore avente causa da un condomino, gode dei beni comuni in forza di un rapporto obbligatorio ma non fa parte dell’organizzazione condominiale. Sarà, perciò il proprietario a dover rispondere verso gli altri condomini della condotta del suo inquilino.
Invero, il proprietario non solo può rendere il proprio inquilino edotto delle norme del regolamento dello stabile, ma può anche verificare in ogni momento se lo stesso le rispetta e può contestargli l’inadempimento contrattuale e, se grave, intimargli la risoluzione del contratto. Non ultimo, può rivalersi sull’inquilino delle sanzioni che gli fossero eventualmente inflitte dall’assemblea per violazioni di disposizioni regolamentari a lui imputabili.
A fortiori se l’infrazione sia commessa dal convivente, dal comodatario ovvero dall’ospite.
Al contrario, invece, ove si parli di nudo proprietario ed usufruttuario o altro titolare di diritto reale minore. In questo caso, a rispondere della violazione è chi beneficia dei frutti dell’immobile e ne sopporta le spese.

III –

Predeterminazione della sanzione in relazione alla violazione di determinate disposizioni del regolamento

Il regolamento deve specificare quali condotte sono vietate.
Stante il carattere eccezionale della pena privata, non è consentito applicare analogicamente le norme sanzionatorie a fattispecie simili o comunque riconducibili a quelle espressamente previste e disciplinate.
Inoltre, il regolamento deve espressamente prevedere per il caso di violazione di questa o di quella disposizione la sanzione pecuniaria e determinarne la misura.
L’assemblea non ha al riguardo alcuna discrezionalità dovendosi limitare la delibera ad irrogare o meno la sanzione in relazione alla infrazione contestata e laddove questa si reputi rientrare tra le condotte vietate dal regolamento.
Il principio cui deve ispirarsi è quello secondo cui non può esservi un reato e quindi una pena se non in forza di una legge preesistente che proibisca e punisca quel comportamento con quella pena (principio di legalità penale).
Ne consegue che una delibera assembleare che irroghi una sanzione pecuniaria a fronte di un comportamento non espressamente vietato dal regolamento ovvero a fronte di un comportamento espressamente vietato ma alla cui infrazione non è ricollegata la sanzione pecuniaria, è radicalmente nulla.


-IV-

Pecuniarietà della sanzione, misura e recidiva

Poiché trattasi di pena privata e poiché al privato è dato il diritto di autotutela solo in casi eccezionali, deve escludersi il diritto di infliggere al condomino pene diverse da quella pecuniaria, siccome espressamente prevista dalla norma delle disposizioni di attuazione che qui si commenta.
Ne consegue non solo che la disposizione del regolamento che eventualmente preveda una sanzione diversa da quella pecuniaria è nulla ma anche che l’irrogazione di essa da parte dell’assemblea può integrare [in capo all’amministratore, senz’altro, ma forse anche in capo ai condomini che votano a favore della delibera] gli estremi del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Quindi, solo pena pecuniaria che può arrivare (inderogabilmente) fino ad un massimo di € 200 ovvero di € 800 per il (solo) caso di recidiva.
Non specificando di che tipo di recidiva deve trattarsi, si può ritenere valida la disposizione del regolamento che preveda l’applicazione del massimo sia in caso di recidiva specifica (più violazioni della stessa disposizione) sia in caso di recidiva generica (più violazioni di disposizioni diverse). Così, sarà sanzionata da nullità quella delibera che preveda la moltiplicazione della sanzione prevista per il numero delle violazioni laddove il risultato ottenuto superi l’importo massimo di € 800.
E’ auspicabile che il regolamento precisi analiticamente cosa l’assemblea possa deliberare nelle diverse ipotesi di recidiva sopra previste.
Il quesito è se l’assemblea possa con propria delibera modificare la misura della sanzione prevista nel regolamento. Nei limiti di quanto già precisato al punto -I- e per come meglio si dirà al punto -V-, ritengo di dover rispondere affermativamente purchè, però, non si eccedano i limiti massimi previsti dalla norma che si commenta da ritenersi, questi sì, inderogabili.
Ove, infatti, l’assemblea deliberasse l’irrogazione di una sanzione superiore alla misura massima consentita, la delibera sarebbe nulla e non potrà ritenersi automaticamente sostituita con altra che rispetti il limite.
Per chiudere sul punto sembra indispensabile chiedersi se le sanzioni pecuniarie contenute nei regolamenti condominiali pre-riforma debbano ritenersi automaticamente aggiornati quanto alla misura ai limiti di cui al citato art. 70. La tesi prevalente è in senso affermativo ove la norma del regolamento richiami espressamente e rimandi all’art. 70. Diversamente, l’amministratore farebbe bene ad attivare l’assemblea perché, a maggioranza o all’unanimità a seconda dei casi, aggiorni il dettato regolamentare.


-V-

Derogabilità dei limiti di cui all’art. 70 disp. att. cc

Per tutto quanto anzidetto, si reputa, diversamente da quanto da altri sostenuto, che i limiti alla potestà sanzionatoria del regolamento qui evidenziati (natura pecuniaria delle sanzioni e limiti nella sua misura massima) non siano superabili nemmeno con il consenso unanime dell’assemblea. E’ pur vero che si giocherebbe sul principio della libera contrattazione ex art. 1322 cc ma è anche vero che l’ordinamento non può permettere al privato di abusare del potere di infliggere sanzioni (cfr. Cass. Civ., Sez. Seconda, n. 820/2014)
Quanto, invece, alla disposizione che prevede che i proventi delle sanzioni siano imputati al pagamento delle spese ordinarie, il dubbio che l’assemblea possa, all’unanimità, stabilire l’imputazione alla realizzazione di lavori straordinari, appare francamente legittimo.
Per sviscerare meglio l’argomento potrebbe essere utile chiedersi quale sia stata la ratio del legislatore nel prevedere questa limitazione. La risposta potrebbe essere che il legislatore così disponendo abbia voluto assicurarsi che tutti i condomini beneficiassero dei proventi delle sanzioni pecuniarie in proporzione alla partecipazione di ciascuno alla spesa collettiva. Lo stesso potrebbe non accadere nel caso in cui si desse corso alla realizzazione di opere di manutenzione straordinaria riguardanti solo una parte dei condomini oppure ripartiti tra loro secondo criteri non corrispondenti alla loro partecipazione millesimale all’unità.
Quindi: se l’assemblea dovesse disporre un’imputazione diversa dei proventi pur sempre garantendo a tutti il beneficio che ne deriva, non vedo particolari ragioni per vietarlo limitando l’autonomia contrattuale dei condomini.


-VI-

Il ruolo dell’assemblea e dell’amministratore

Si è detto che all’assemblea spetta irrogare la sanzione con le maggioranze di cui all’art. 1136 cc.
La delibera con cui la sanzione viene irrogata presuppone, però, che vi sia stata una contestazione (in forma di diffida) della infrazione al condomino responsabile, che della infrazione e della contestazione vi sia prova documentale, che essa sia riconducibile alla violazione di una disposizione del regolamento e che questa disposizione ne determini o ne consenta di determinare la misura ed il termine ultimo per il pagamento.
All’amministratore spetta l’ingrato compito di mettere l’assemblea nella condizione di deliberare e quindi di istruire, molto scrupolosamente, un vero e proprio procedimento privato.
Non solo.
Dovrà convocare l’assemblea con opportuno ordine del giorno sul punto.
Una volta deliberata la sanzione, l’amministratore cui compete riscuotere il dovuto, dovrà inserire idonea voce nel rendiconto consuntivo avendo cura di addebitarla al condomino sanzionato e di accreditarla a tutti gli altri condomini in proporzione alla loro partecipazione millesimale al condominio.
Meglio sarebbe quindi che il regolamento non lasci nulla al caso e disciplini nei tempi e nei modi anche la procedura di contestazione fino alla delibera di irrogazione della sanzione, che stabilisca come documentare la prova della infrazione e della responsabilità nonchè gli effetti della delibera assembleare di irrogazione anche sul rendiconto.
Al condomino, invero, è riconosciuto il diritto di impugnare la delibera entro trenta giorni dalla sua approvazione ovvero dalla conoscenza che questi ne abbia avuta.
Il mancato pagamento nel termine della sanzione irrogata, consentirà – d’altra parte – all’amministratore di adire l’Autorità Giudiziaria per procurarsi un titolo contro il condomino inadempiente.
Ove vi fosse un credito certo, liquido, esigibile e fondato su prova scritta, l’amministratore ben potrebbe promuovere l’azione monitoria ed ottenere la condanna del debitore al pagamento. Il decreto ingiuntivo emesso sulla scorta di una voce a debito inserita in un rendiconto ed un piano di riparto approvati potrà poi beneficiare della clausola di provvisoria esecutività.