La responsabilità che fa capo al proprietario di un animale prescinde dal grado di diligenza nella sua custodia e dalla adozione di tutte le possibili cautele: si tratta, infatti, di una responsabilità di tipo oggettivo da cui si può essere liberati solo al verificarsi di un evento giuridicamente qualificabile come caso fortuito.
Il fatto
Capita sovente per strada, nei parchi e più in generale in aree verdi frequentate da adulti e bambini, di vedere cani lasciati circolare liberamente dai loro padroni. Il proprietario generalmente è tranquillo perché ritiene che nulla di male possa accadere essendo l’animale di piccole dimensioni oppure di indole mansueta. Talora il proprietario ha anche la convinzione che se una persona dovesse avvicinarsi al suo animale e infastidirlo o comunque tenere una condotta inadeguata (es. tirandogli la coda, cercando di strappargli un oggetto dalla bocca ecc.), quella persona dovrebbe ritenersi responsabile della conseguente reazione del cane e dei danni da questo eventualmente provocati. Nulla di più sbagliato.
Cosa dispone la norma
L’art. 2052 c.c., sotto la rubrica “Danno cagionato da animali”, così recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”. Per legge, quindi, la responsabilità che fa capo al proprietario per i danni provocati dal suo animale è una responsabilità oggettiva: cioè, il proprietario è ritenuto responsabile a prescindere dalla sua eventuale malafede o colpa nella custodia. La responsabilità trova quindi la sua ragione d’essere nel rapporto di fatto intercorrente tra il proprietario e il suo animale. Ne consegue che per i danni cagionati dall’animale ad un terzo, il proprietario risponde in ogni caso ed in toto, anche se prova di aver usato la massima diligenza e adottato ogni cautela nella custodia dell’animale. Una sola eccezione può liberare il proprietario: il caso fortuito.
L’esimente del caso fortuito
Il caso fortuito è un fatto naturale o di un terzo, oggettivamente imprevedibile ed inevitabile, che interviene nella causazione del danno togliendo così rilievo all’assenza o meno di colpa del custode. Il proprietario dell’animale potrà quindi liberarsi dalla responsabilità per i danni cagionati dal suo animale solo fornendo la prova dell’intervento di un fattore:
esterno (fatto naturale o comportamento di un terzo);
imprevedibile;
inevitabile;
di assoluta eccezionalità;
idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta del proprietario e quella tenuta dall’animale che ha provocato l’evento lesivo;
che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno. Caso fortuito, quindi, non è un qualunque elemento esterno (es. tuono, avvicinamento di un estraneo) ma solo quell’elemento in cui siano ravvisabili tutte le caratteristiche sopra elencate. In assenza di un evento giuridicamente qualificabile come caso fortuito, se l’animale cagiona un danno il suo proprietario non potrà invocare la forza di natura o il fatto del terzo.
Caso fortuito e colpa del proprietario
Per invocare il caso fortuito occorre che non vi sia una originaria colpa del proprietario (per intenderci, l’animale era adeguatamente custodito e un evento naturale come un terremoto o un’inondazione o un evento umano come l’intervento di un ladro, hanno provocato l’apertura del ricovero ove l’animale si trovava adeguatamente custodito) oppure che l’evento naturale o umano sia tale da togliere rilevanza alla originaria colpa del proprietario in quanto ha fatto venir meno il rapporto di causa-effetto tra la condotta del proprietario e quella del cane e quindi dell’evento lesivo. L’evento lesivo, cioè, è da ricondursi esclusivamente al caso fortuito e non già alla colpa del proprietario che diventa, quindi, elemento irrilevante.
In conclusione
Concludendo, se il proprietario di un animale non ha adottato adeguate cautele ed anzi, lasciando ad esempio l’animale libero di circolare tra altre persone, ha reso non solo possibile ma addirittura ha agevolato il contatto tra il proprio animale ed i terzi, sarà responsabile dell’eventuale ferimento di terzi da parte dell’animale e non potrà liberarsi della responsabilità neppure contestando il fatto che il terzo si fosse avvicinato all’animale in modo maldestro o avesse infastidito l’animale.
La pensione di reversibilità garantisce sostegno economico al coniuge divorziato che percepisce l’assegno divorzile e/o al coniuge convivente. Nel caso in cui concorrano entrambi, il criterio che la fa da padrone per stabilire la misura della quota che spetta all’uno e all’altro è quello della durata del vincolo matrimoniale. La sola convivenza more uxorio ha invece poca incidenza.
Premessa
La fine di un matrimonio non necessariamente toglie agli ex coniugi il desiderio e l’entusiasmo di costituire, con un altro/a compagno/a, una nuova famiglia. Tuttavia, vuoi per le vicissitudini e le lungaggini giudiziarie della separazione e del divorzio, vuoi perché si va più cauti prima di formalizzare un secondo vincolo matrimoniale, i nuovi rapporti molte volte si cristallizzano, anche per decenni, in una convivenza more uxorio. I conviventi decidono magari di sposarsi quando sono ormai in là con gli anni così da potersi reciprocamente garantire, in caso di decesso di uno, che l’altro possa godere dei diritti e delle tutele soprattutto economiche spettanti al coniuge rimasto in vita. Tra i diritti che il coniuge superstite può vantare vi è quello a percepire la pensione di reversibilità erogata dall’INPS.
La pensione di reversibilità: a chi spetta?
Nel caso in cui il defunto avesse in vita contratto due matrimoni, alla pensione di reversibilità ha diritto non solo il coniuge superstite, ma anche l’ex coniuge titolare dell’assegno di divorzio e che non abbia contratto nuovo matrimonio.
Come ripartire la pensione tra ex coniuge e coniuge superstite: i criteri.
Come va ripartita la pensione di reversibilità tra i due aventi diritto? In quale misura? Il problema non è di poco conto perché ben può essere che i coniugi, nella regolamentazione dei loro rapporti economici, avessero fatto affidamento sul diritto del coniuge superstite a percepire la pensione di reversibilità in una certa misura. Trovarsi magari poi riconosciuta una quota del 10% sarebbe una amara sorpresa e potrebbe porre il coniuge convivente in una condizione di grave difficoltà economica. La legge non stabilisce l’entità della quota di pensione spettante al coniuge superstite e all’ex coniuge, per cui questa andrà di volta in volta quantificata da un Giudice. Ma sulla scorta di quali elementi il Giudice quantifica la misura della pensione spettante all’ex coniuge e quella spettante al coniuge superstite? Saperlo e soprattutto avere la consapevolezza dell’incidenza di questi elementi nella quantificazione è importante perché consentirebbe alle parti di fare delle previsioni e mettere in atto le opportune reciproche tutele. Partiamo da questa considerazione: la finalità della pensione di reversibilità è quella di dare continuità alla funzione di sostegno economico che il coniuge defunto assolveva a favore dell’ex coniuge attraverso il pagamento dell’assegno di divorzio e a favore del coniuge convivente attraverso la condivisione dei propri beni economici. La ripartizione della pensione di reversibilità non ha dunque la finalità di riequilibrare le posizioni economiche di ex coniuge e coniuge convivente laddove vi sia disparità. Vediamo ora quali elementi valuta il Giudice nella definizione delle quote. L’elemento principale, quello che in assoluto ha la maggiore incidenza e che sostanzialmente stabilisce quale parte ha diritto a percepire la quota più cospicua di pensione, è rappresentato dalla durata delle due convivenze matrimoniali. E qui chiariamo subito un aspetto: alla convivenza matrimoniale non può essere equiparata quella more uxorio. Questo perché convivenza coniugale e convivenza more uxorio sono due concetti costituzionalmente distinti: vero che per alcuni aspetti la disciplina dell’una e dell’altra presentano analogie, tuttavia ciò non comporta, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, il necessario riconoscimento in favore del convivente superstite del trattamento pensionistico di reversibilità, non rientrando quest’ultimo tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost. Questo primo criterio si basa quindi sul matematico confronto della durata tra le due convivenze matrimoniali. Pur essendo tale elemento il più importante e preponderante, si cerca però di mitigarlo attraverso l’applicazione di altri elementi che il Giudice deve prendere in considerazione, così da, se non evitare, almeno limitare il verificarsi di una decisione evidentemente iniqua quale potrebbe essere quella di riconoscere al coniuge superstite una quota insufficiente a coprire le basilari esigenze di vita. Gli elementi correttivi di cui pertanto il Giudice dovrà tenere conto sono:
l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge;
le condizioni economiche complessive di ex coniuge e del coniuge superstite;
la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali;
il contesto in cui si sono svolte le due convivenze (quindi, ad esempio l’assistenza prestata dal coniuge superstite per la cura del coniuge poi defunto);
l’età del coniuge superstite e dell’ex coniuge;
le disposizioni operate dal coniuge defunto in favore del coniuge superstite.
Il suggerimento
In concreto, tuttavia, gli elementi correttivi hanno un’incidenza modesta: nel caso deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11520/2020, ad esempio, in grado di appello l’applicazione dei criteri correttivi aveva consentito di passare dalla quota del 10% riconosciuta al coniuge superstite in primo grado ad una del 20%. E’ chiaro, quindi, che in tutti quei casi in cui vi sia una forte disparità di durata tra il primo ed il secondo vincolo matrimoniale, la pensione di reversibilità sarà di fatto destinata ad essere ripartita in due quote di cui una sensibilmente maggiore rispetto all’altra. Che fare dunque per tutelare il coniuge superstite se la quota di pensione di reversibilità cui questo dovrebbe aver diritto fosse quella più modesta? Una soluzione potrebbe essere che il coniuge, prima di morire, disponga in favore del coniuge convivente dei suoi beni o di parte di essi così da garantirgli, non potendo fare affidamento sulla pensione i reversibilità, di disporre delle risorse necessarie e sufficienti per far fronte ai suoi bisogni.
Il testamento olografo non richiede particolari formalità. Occorre però prestare attenzione a tre requisiti: deve essere scritto integralmente a mano dal testatore; deve essere sottoscritto e deve essere datato. In questo articolo parleremo della data: come va correttamente scritta e le conseguenze della sua omissione o incompletezza.
Premessa
Il testamento olografo è quel tipo di testamento scritto tutto di pugno dal suo testatore.
Non richiede particolari forme solenni, però non devono esserci dubbi sulla sua autenticità e genuinità.
Per questo, ai fini della sua validità, il testatore lo dovrà interamente manoscrivere, datare e sottoscrivere.
In questo articolo mi concentrerò sulla data, che è un elemento che talora rischia di sfuggire al testatore, magari più concentrato ad esprimere le sue ultime volontà.
Cosa si intende per data e qual è la sua funzione
La data serve per stabilire esattamente il giorno, il mese e l’anno di redazione del testamento.
E’ un elemento essenziale per due ragioni:
in presenza di più testamenti, consente di stabilire quale sia l’ultimo e quindi quello da considerarsi efficace in quanto corrispondente alle ultime volontà del testatore;
in caso di dubbi sulla capacità di intendere e di volere del testatore, consente di stabilire se al momento della redazione del testamento, il suo autore fosse capace o meno.
Come si scrive la data
La data, per disposizione di legge (art. 602 c.c.), va scritta riportando il giorno, il mese e l’anno di redazione del testamento.
E’ valida anche una diversa indicazione della data purché sia equipollente a quella prevista dalla legge.
Ad esempio, se il testatore scrive il giorno del mio 65° compleanno, Natale 2019, Pasqua 2020, si può ricavare precisamente il giorno, il mese e l’anno di redazione del testamento e la disposizione di legge si considera soddisfatta.
La data, inoltre, può essere anche riportata in modo incompleto senza viziare il testamento, purché la sua integrazione possa avvenire attraverso il contenuto delle disposizioni testamentarie.
Dove si scrive la data
Per la validità del testamento, l’importante è che la data sia scritta sulla scheda testamentaria.
A discrezione del testatore, può essere scritta all’inizio o alla fine delle disposizioni testamentarie, prima o dopo la sottoscrizione del testatore.
Se il testamento si compone di più fogli non è necessario che sia riportata su ognuno di essi.
Quando la data si considera mancante o non validamente apposta
La data si considera mancante sicuramente quando non è stata apposta sulla scheda testamentaria e non è ricavabile dalla lettura delle disposizioni testamentarie.
Se la data è stata apposta solo sulla busta contenente il testamento e non su quest’ultimo, si considera non apposta.
La data cancellata, anche se leggibile sotto la cancellatura, si considera mancante.
E’ da considerarsi incompleta la data che non riporti l’esatta indicazione del giorno, del mese e dell’anno (es. settembre 2018, 07 novembre) e non sia possibile ricavare il dato mancante dalle disposizioni testamentarie.
Ricordiamoci che la possibilità di ricavare la data di redazione del testamento da elementi esterni ed estranei a quest’ultimo, non consente di sopperire alla carenza o incompletezza della data e quindi di far salve le volontà del testatore.
E’ vero che sul punto dottrina e giurisprudenza hanno seguito anche orientamenti meno rigorosi, tuttavia è bene essere prudenti ed evitare di esporsi a contestazioni sulla data: il rischio sarebbe infatti l’impossibilità di dare esecuzione al testamento.
Quindi, ad esempio, se il testatore, non riportasse la data sul testamento ma tra le sue disposizione scrivesse: “lascio a mio figlio i quadri che mi sono pervenuti in seguito alla morte di mio padre, deceduto 20 giorni fa”, sarebbe certamente possibile stabilire la data ma solo facendo riferimento a elementi estranei al testamento (identificazione del padre del testatore e i suoi dati anagrafici) e ciò lo invaliderebbe.
La mancanza della data e l’invalidità del testamento
La Corte di Cassazione con ordinanza n. 9364/2020 della Sesta Sezione Civile – 2 del 31/10/2019 e depositata il 21/05/2020 ha reso interessanti chiarimenti circa le conseguenze della mancata apposizione della data sul testamento.
L’omessa o incompleta indicazione della data comporta l’annullabilità del testamento olografo.
Con la pronuncia dell’annullamento, cioè, vengono meno gli effetti del testamento, con effetto retroattivo perché l’inefficacia risale al momento della apertura della successione.
Per cui se il testamento annullato, ad esempio, conteneva la nomina di un erede o un legato, queste disposizioni diverranno inefficaci e ciò a vantaggio degli eredi successibili per legge.
E’ come se il testamento non fosse mai esistito: qualsiasi effetto prodotto dal testamento tra l’apertura della successione e il suo annullamento viene meno.
Viceversa, gli eventuali atti dispositivi compiuti nelle more dell’annullamento da colui che diventerà erede legittimo una volta intervenuto l’annullamento, debbono considerarsi validi ancorché, nel momento in cui sono stati posti in essere, l’erede non era ancora legittimato a porli in essere.
L’annullabilità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse nel termine di 5 anni decorrenti dalla data in cui le disposizioni testamentarie hanno avuto esecuzione.
Decorsi quindi i 5 anni, il testamento, ancorché viziato con riferimento alla data, non potrà essere più impugnato e i suoi effetti, a favore degli eredi testamentari ed a scapito di quelli legittimi, si cristallizzeranno.
La minuta di un accordo diventa vincolante nel momento in cui le parti definiscono tutti i suoi elementi costitutivi o la ritengono efficace come accordo. Nel corso delle trattative occorre quindi che le parti prestino attenzione alle parole usate ed ai comportamenti tenuti onde evitare di vincolarsi prematuramente.
Lo scambio delle bozze e i rischi connessi alla formazione di un vincolo prematuro su contenuti non definitivi
Dovendo formalizzare un accordo per risolvere una controversia o sottoscrivere un contratto, è inevitabile che una parte (c.d. parte diligente) metta nero su bianco le proprie proposte e le inoltri all’altra parte. A questo punto inizia tra le parti uno scambio, più o meno intenso, del testo con modifiche, integrazioni e cancellazioni.
Ma quando la bozza di un accordo cessa di essere tale e diventa vincolante?
Non di rado capita che le parti si scontrino, prima ancora che sul contenuto, sulla vincolatività di un accordo.
Riportare per iscritto i termini di un’intesa serve per evitare fraintendimenti e dimenticanze circa gli impegni assunti e per cristallizzare i punti fermi.
Lo scambio scritto di proposte, inoltre, potrebbe tornare vantaggioso al fine di dimostrare – laddove ve ne fosse bisogno – la propria correttezza e buona fede nel corso delle trattative o contestare quella di controparte.
Guai quindi ad affidarsi ad intese solo verbali.
Dall’altra parte, però, proprio perché le trattative possono essere in continua evoluzione, occorre mettersi al riparo dal rischio di vincolarsi, prematuramente, a contenuti che nelle nostre intenzioni non sono ancora definitivi o completi ed anzi potrebbero essere radicalmente modificati.
Come tutelarsi dunque?
E’ bene capire, innanzitutto, quando la bozza di accordo diventa un accordo a tutti gli effetti.
Il tema è stato recentemente affrontato dalla Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13610 del 02/07/2020 Sezione VI.
Secondo il principio generale, per divenire vincolante la bozza deve essere completa, deve cioè esservi il consenso delle parti su tutti gli elementi costitutivi dell’accordo, quindi sia su quelli principali che secondari. Se manca il consenso su alcuni elementi, la bozza non acquista efficacia di accordo.
Questa regola vale anche per i contratti a formazione progressiva, quelli in cui le clausole si formano gradualmente: le parti prima discutono e raggiungono l’intesa su alcuni punti e solo successivamente passano a discutere degli altri. Anche in questi casi, la bozza diventa vincolante solo dopo il raggiungimento del consenso sul contenuto di tutte le clausole. E’ lasciata però alla autonomia delle parti la facoltà di stabilire che le singole clausole, mano a mano che vengono approvate, diventino vincolanti. Il che potrebbe essere opportuno nel caso in cui le clausole approvate stiano in piedi da sole e l’incidenza delle ulteriori sia di poco conto: le parti, infatti, avrebbero in questo modo la certezza di portarsi a casa l’intesa.
Attenzione però: se è vero che la teoria ci dice che una bozza, se incompleta, non può considerarsi vincolante per le parti, in concreto, al fine di stabilire se si è formato un vincolo o meno, occorre considerare anche la condotta tenuta dalle parti successivamente alla formazione della bozza.
Ciò perché, per volontà delle parti, una bozza, anche se incompleta (purché ovviamente contenente gli elementi essenziali) può trasformarsi in un vero e proprio accordo.
Questo accade se le parti hanno espressamente convenuto di considerarsi vincolate alla bozza.
Ricordiamoci che la volontà si può esprimere non solo a parole, ma anche attraverso dei comportamenti. Pertanto se le parti, pur senza dirsi nulla, hanno dato esecuzione a quanto previsto nella bozza, questa diverrà vincolante.
Per concludere
Le parti dovrebbero, anzitutto, avere l’accortezza di precisare, ad esempio con la comunicazione accompagnatoria dello scambio della bozza, quando questa potrà ritenersi vincolante: una volta steso e concordato il contenuto di tutte le clausole di cui si comporrà l’accordo oppure una volta definito il contenuto di determinate clausole.
In ogni caso, è importante nel corso delle trattative – se il testo dell’accordo è ancora in divenire e incompleto e non ci si vuole vincolare ad esso – evitare di tenere comportamenti che possano essere intesi come adempimento di quanto previsto nella bozza o acquiescenza al suo contenuto.
Abstract In un momento di difficoltà ed incertezza economica e finanziaria quale quello attuale, la riserva di proprietà rappresenta un buon compromesso tutelante sia per il venditore sia per l’acquirente nella compravendita di macchinari costosi con pagamento del prezzo dilazionato nel tempo.
Premessa e individuazione della criticità Ci sono aziende che costruiscono e vendono macchinari anche molto costosi.
Gli acquirenti di questi macchinari non sempre dispongono della liquidità necessaria per pagare l’intero prezzo al momento della consegna. Quindi, in genere, versano un acconto in sede di conferma di ordine e il saldo lo pagano a rate a partire dalla consegna della macchina. L’intero prezzo, se tutto va bene, viene così corrisposto dopo un anno (a volte anche di più) dalla consegna.
Con una vendita pura e semplice l’acquirente diventa a tutti gli effetti proprietario della macchina pur avendo corrisposto solo una parte del prezzo; il venditore, quindi, si spoglia della proprietà pur avendo ricevuto solo un acconto e diventa, di fatto, anche il finanziatore dell’acquirente.
Se l’acquirente non dovesse saldare il prezzo, il venditore perderebbe il macchinario (divenuto di proprietà dell’acquirente) e i soldi.
Che fare, dunque?
Pretendere che l’acquirente paghi tutto e subito sarebbe irrealistico: potrebbe non disporre della liquidità necessaria o non trovare un finanziatore. I costi e le tempistiche di un finanziamento potrebbero, inoltre, pregiudicare la compravendita e spingere l’acquirente a desistere dall’acquisto oppure a rivolgersi ad un venditore concorrente disponibile a rateizzargli il prezzo.
Il contratto di vendita con riserva di proprietà’ o con patto di riservato dominio: inquadramento La soluzione sta nel posticipare il momento in cui avviene il passaggio di proprietà del macchinario e ciò è possibile ricorrendo al contratto di vendita con riserva di proprietà o patto di riservato dominio.
Si tratta a tutti gli effetti di un contratto di vendita in forza del quale, però, il venditore rimane proprietario del bene sino al momento del pagamento dell’ultima rata da parte dell’acquirente (art. 1523 c.c.).
La materiale disponibilità del bene (il possesso) passa invece in capo all’acquirente sin dal momento della consegna.
L’utilità del contratto di vendita con riserva di proprietà Questo tipo di contratto è particolarmente utile quando le parti sottoscrivono un contratto di compravendita e l’acquirente provvede al pagamento del prezzo al venditore in via dilazionata.
Il venditore, infatti, in questo modo, conservando la proprietà ha il diritto di riprendersi il bene se il prezzo non viene integralmente pagato. Questa tutela si apprezza soprattutto nei casi in cui l’inadempimento dell’acquirente si manifesti poco dopo la consegna: il macchinario è ancora pressoché nuovo e quindi, se recuperato, ricollocabile altrove.
Il compratore, dal canto suo, in questo modo pur non disponendo nell’immediato della liquidità per acquistare il macchinario, ne diventa possessore e lo può utilizzare per la sua attività.
Patto di riservato dominio e forma scritta. La clausola che prevede la riserva di proprietà deve essere sottoscritta contestualmente al contratto di vendita e ciò per evitare che venditore ed acquirente vi possano ricorrere a posteriori in frode dei creditori del compratore. Il patto di riservato dominio potrà essere efficace anche se sottoscritto in un momento successivo alla conclusione del contratto di vendita ma solo a condizione che si provi che quella era la volontà originaria delle parti.
Diritti e doveri dell’acquirente e tutele del venditore L’acquirente, avendone la materiale disponibilità, può utilizzare da subito il bene oggetto della vendita. Con la consegna, si trasferiscono in capo a lui tutti i rischi connessi alla perdita e al deterioramento del bene, ancorché non ne sia ancora proprietario. Pertanto per l’eventuale perimento del bene, è responsabile l’acquirente che dovrà pagarne in ogni caso l’intero prezzo.
L’acquirente, non essendone proprietario, non potrà invece disporre del bene vendendolo a terzi e se lo facesse sarebbe perseguibile per il reato di appropriazione indebita ai sensi dell’articolo 646 c.p.
Il venditore, per porsi al riparo dal rischio di atti dispositivi dell’acquirente, ai sensi dell’art. 1524 c.c. può trascrivere il patto di riservato dominio in un apposito registro tenuto nella cancelleria del tribunale nella giurisdizione del quale è collocata la macchina. Se, in caso di acquisto da parte di un terzo, la macchina si trovasse ancora nel luogo dove la trascrizione è stata eseguita, il patto sarebbe opponibile anche al terzo acquirente in buona fede. In ogni caso il patto di riservato dominio è sempre opponibile al terzo in mala fede.
Inoltre il venditore, in quanto proprietario, può invocare l’applicazione di misure cautelari nei confronti del compratore che mette a rischio la restituzione del bene o la sua integrità.
Risoluzione e mancato pagamento del prezzo La risoluzione del contratto, a meno che non sia consensuale, può avere luogo per il mancato pagamento di più rate o anche di una sola rata solo se questa rappresenti più dell’ottava parte del prezzo pattuito (art. 1525 c.c.).
Questa disposizione è inderogabile a sfavore dell’acquirente. Anche le clausole che pattuiscono la decadenza del compratore dal beneficio del termine delle rate successive sono nulle, sempre che la rata impagata non superi l’ottava parte del prezzo.
Di fatto, però, anche un inadempimento superiore al limite di 1/8 del prezzo o il mancato pagamento di più rate non comporta automaticamente il diritto in capo al venditore ad ottenere la risoluzione del contratto, atteso che è prima necessario valutare la situazione complessiva, come la possibile insolvenza del debitore, la diminuzione o la perdita delle garanzie, etc.
Va poi considerato che la risoluzione dà diritto al venditore a reclamare: i) l’eventuale risarcimento del danno rappresentato da un irregolare uso del bene o da una alterazione della sua funzionalità e ii) un equo compenso, cioè un corrispettivo per l’uso fatto dall’acquirente.
Qui occorre fare una riflessione: poiché il venditore rientra nel possesso della macchina, l’equo compenso potrebbe risultare inferiore all’ammontare delle rate pagate dall’acquirente e ciò obbligherebbe il venditore a restituire parte di quanto percepito. Il venditore, quindi, dovrà attentamente valutare non solo se sussistono i presupposti per domandare la risoluzione del contratto ma anche la convenienza della risoluzione. Se le rate pagate dall’acquirente sono poche, la risoluzione potrebbe sicuramente giovare (anche perché si recupererebbe un macchinario ancora utilmente collocabile sul mercato) e il rischio di restituzione sarebbe contenuto se non addirittura assorbito dall’equo compenso. Viceversa, maggiore prudenza andrà adottata nel caso in cui l’inadempimento del compratore si manifesti a metà o addirittura verso la fine della dilazione. Il venditore, per porsi al riparo dall’obbligo di restituzione di parte del prezzo, potrebbe essere indotto a prevedere nel contratto il diritto a trattenere a titolo di indennità le rate già pagate. Siffatta clausola, tuttavia, non è in assoluto tutelante: il giudice eventualmente adito dall’acquirente potrebbe infatti disporre la riduzione dell’indennità pattuita sino a farla divenire un equo compenso (art. 1526 c.c.).
La domanda di risoluzione, quindi, andrà ben ponderata a prescindere da ciò che hanno pattuito le parti nel contratto.
Fallimento o pignoramento dell’acquirente. Il patto di riservato dominio si rivela una idonea tutela per il caso di fallimento o di pignoramento mobiliare subito dall’acquirente. Siffatto patto, infatti, impedisce che il bene entri a far parte del patrimonio dell’acquirente e che, pertanto, venga aggredito per il soddisfacimento di altri crediti.
Per poter opporre il patto di riservato dominio ai creditori dell’acquirente e proteggere quindi il bene dal rischio di essere pignorato da costoro oppure opporlo al fallimento dell’acquirente, l’atto che contiene la riserva di proprietà deve avere data certa anteriore al pignoramento (art. 1524 codice civile) e alla dichiarazione di fallimento o apertura di altra procedura concorsuale.
La prova della data certa anteriore può essere data dallo scambio tramite PEC del contratto sottoscritto o dalle fatture aventi data certa (es. fatture elettroniche) e registrate nelle scritture contabili.
In conclusione Vero è che il patto di riservato dominio richiede una maggiore attenzione in fase di stesura e formalizzazione del contratto al fine soprattutto della data certa e ben può essere che incontri il dissenso del potenziale acquirente il quale vorrà divenire proprietario del bene subito (salvo pagare il prezzo in via dilazionata), tuttavia, soprattutto in un momento di difficoltà ed incertezza economica e finanziaria quale quello attuale, la riserva di proprietà potrebbe rappresentare un buon compromesso tutelante sia per il venditore sia per l’acquirente.
Riflessioni sul comportamento conforme alla buona fede contrattuale e sul divieto di abuso del diritto del creditore in materia di locazione ad uso diverso. Eccezioni e rimedi.
Introduzione
La pandemia e le norme della decretazione d’urgenza che hanno imposto il lockdown ed il distanziamento sociale hanno minato alla base l’equilibrio sinallagmatico di molti contratti di locazione ad uso diverso.
I conduttori si sono trovati nella impossibilità di accedere agli immobili (si pensi ad esempio ai negozi nei centri commerciali) e di esercitare la loro attività (si pensi ad esempio alle palestre). Il cash flow si è esaurito ed è sopraggiunta la incapacità di far fronte alle ordinarie obbligazioni come quella, per esempio, del pagamento del canone.
Si è letto di tutto sui diritti e gli obblighi dei conduttori, sull’impossibilità sopravvenuta di adempiere e sulla eccessiva onerosità sopravvenuta.
Assai minore è l’attenzione dedicata alla posizione del locatore.
Di seguito qualche considerazione al riguardo.
Obbigo generale di comportarsi secondo buona fede
Il quesito è il seguente: quale è il comportamento che deve tenere il locatore e come può muoversi perché nulla gli possa essere contestato?
Per dare una risposta dobbiamo partire da una rivisitazione del concetto generale di buona fede oggettiva che impone alle parti di comportarsi in modo leale e corretto durante tutta l’esecuzione del contratto.
Più precisamente.
Quanto alla sua origine, questo obbligo si modella sul vincolo di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione che impone a tutte le parti di agire nella reciproca tutela degli interessi riconducibili al contratto al di là di quelli che sono i diritti a ciascuna spettanti. Come a dire che questi ultimi dovranno profilarsi come recessivi rispetto ai primi se, per la ricorrenza di determinate circostanze, il loro esercizio è frutto di capriccio, prepotenza o sopruso.
In particolare, la clausola di buona fede ha assunto nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale tanto la funzione di criterio di valutazione delle condotte quanto quella di strumento di integrazione e ricognizione degli obblighi derivanti dal contratto.
In questa duplice prospettiva, in che cosa consiste concretamente il comportamento leale e corretto del locatore ai tempi del coronavirus?
Ignorare ostinatamente lo sbilanciamento sopravvenuto tra le prestazioni, resogli noto dal conduttore insieme ad una richiesta di rinegoziazione delle condizioni economiche contrattuali, e pretendere l’intero corrispettivo della locazione senza disporre dell’evidenza della pretestuosità delle difficoltà ostentate dall’altra parte, integra senz’altro un comportamento contrario alla lealtà ed al vincolo di solidarietà di rango costituzionale.
Parimenti, appare contrario a buona fede il comportamento del locatore che rifiuti l’esecuzione di opere indifferibili di manutenzione straordinaria sull’immobile locato opponendo la sospensione del pagamento dei canoni benchè causata dalla chiusura dell’attività nel rispetto della decretazione d’urgenza.
L’abuso del diritto del creditore
Figura giuridica per più versi intrecciata a quella della buona fede è quella dell’abuso del diritto del creditore.
Sono presupposti per la sua configurabilità:
che una delle parti sia titolare di un diritto soggettivo;
che possa essere in concreto esercitato con diverse modalità;
che, in fatto, sia esercitato con modalità tale da procurare una sproporzione ingiustificata tra il beneficio che ne ricava il titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte.
E’ il caso del locatore che agisce in giudizio notificando al conduttore lo sfratto per la morosità maturata in periodo di lockdown ovvero che azioni la fideiussione a prima richiesta per recuperare dal garante del conduttore le morosità.
Qui il proprietario esercita indiscutibilmente il proprio diritto che è quello di ricevere il canone pattuito nel contratto ma lo fa nella consapevolezza e quindi con la volontà di ledere il debitore.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Di tutti, minimo comune denominatore è l’arbitrarietà della condotta del creditore astrattamente corrispondente ad una posizione di diritto ma che, travalicandone i limiti, va a ledere la sfera giuridica altrui pretendendo irragionevolmente dal debitore un sacrificio non più affrontabile o non più affrontabile nella misura inizialmente pattuita.
A queste condizioni, l’interesse sotteso all’esercizio del diritto non è meritevole di tutela.
I rimedi
Laddove la legge non preveda un rimedio tipico all’abuso di un determinato diritto, come nel caso che ci occupa, supplisce l’exceptio doli generalis.
La locuzione latina indica l’eccezione finalizzata a paralizzare l’istanza di tutela di un diritto azionata abusivamente.
La Cassazione Civile del 17/03/2007 n. 5273 chiarisce che l’exceptio doli generalis “[…] costituisce un rimedio di carattere generale, utilizzabile anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate, il quale è diretto a precludere l’esercizio fraudolento o [ndr: anche solo] sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento, paralizzando l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte e giustificando il rigetto della domanda giudiziale fondata sul medesimo, ogniqualvolta l’attore abbia sottaciuto circostanze sopravvenute al contratto ed aventi forza modificativa o estintiva del diritto, ovvero abbia avanzato richieste di pagamento “prima facie” abusive o fraudolente, […].”
L’eccezione in parola ha finalità difensiva poiché mira ad impedire l’accoglimento della domanda fondata sul diritto abusato. E’, nella sostanza, una tutela reale.
Questo elemento ed altresì la circostanza che in giurisprudenza si sia affermata la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione da parte del Giudice, rendono bene la gravità attribuita a questa condotta.
Ai fini della prova, è sufficiente la mera conoscenza o conoscibilità della contrarietà alla correttezza del comportamento assunto.
Tutto utile, sì, ma non sufficiente.
Ecco allora che il già spiegato parallelismo tra il divieto dell’abuso del diritto e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, aggiunge alla tutela reale quella obbligatoria fondata sul risarcimento del danno da responsabilità contrattuale.
Non è da dimenticare, infine, la possibilità di ricorrere all’art. 88 cpc (dovere di lealtà e probità delle parti e dei loro difensori) e all’art. 92 cpc (condanna alle spese per violazione degli obblighi di cui all’art. 88 cpc) che consentirebbe al Giudice investito della domanda di accogliere le conclusioni del creditore ma di condannarlo alle spese che sarebbero dovute rimanere a carico del soccombente.
Con la ripresa delle attività economiche, torniamo necessariamente a concludere contratti, a portare avanti trattative, ad assumere nuovi obblighi.
Siamo però ancora in un momento di incertezza: sono possibili nuovi lockdown? la redditività di alcune attività ritornerà ai livelli pre Covid? i bisogni e le abitudini dei clienti sono mutati?
Sono, questi, elementi che ci consentirebbero di valutare la convenienza dell’affare e la capacità dei contraenti di rispettare le obbligazioni.
Tuttavia non è possibile, allo stato, rispondere a queste domande o fare delle previsioni. D’altro canto, però, è anche impensabile rimanere in stand by e attendere tempi migliori: il rischio sarebbe quello di perdere preziose occasioni e di non far ripartire la propria attività in modo adeguato.
La gestione dell’incertezza
Posto che la tutela che rinveniamo nel codice civile per i contratti già in essere nel momento in cui è scoppiata la pandemia non può anche applicarsi ai futuri contratti, la soluzione va ricercata nella previsione e gestione dell’incertezza.
Ciò è possibile elaborando delle clausole già ribattezzate clausole coronavirus attraverso le quali i contraenti, in relazione alle loro esigenze, individuano – ora per allora – i) gli eventi che potrebbero pregiudicare il rapporto contrattuale, ii) il pregiudizio che deve in concreto verificarsi e iii), infine, i meccanismi di tutela ritenuti più opportuni.
Vediamo in concreto come possono operare queste clausole.
L’esperienza ci insegna che ci sono attività che in caso di un aumento di contagi rischierebbero un immediato nuovo lockdown e ciò per effetto delle disposizione di sospensione dell’attività o di restrizioni alla circolazione. Questo significa che dall’oggi al domani potrebbe non essere più possibile rendere alcune prestazioni, ma certo non per fatto e colpa del contraente inadempiente: si tratterebbe, infatti, di una impossibilità pacificamente incolpevole e soprattutto non evitabile.
In questi casi potrebbe far comodo prevedere l’immediata risoluzione del contratto. La parte che non è più in grado di rendere la prestazione si metterebbe così al riparo dal rischio di essere considerata inadempiente e, soprattutto, di dovere un risarcimento danni. L’altra parte, a sua volta, potrebbe avere interesse a non rimanere vincolata ad un contratto che nulla più le dà ed anzi a tornare ad essere libera di ricercare un altro contraente in grado di rendere quella prestazione oppure di optare per altre soluzioni.
Vi sono poi casi in cui il verificarsi di uno degli eventi sopra citati (es. sospensione di alcune attività o limitazioni alla circolazione), pur non incidendo sulla possibilità di eseguire la prestazione, la renderebbe più gravosa.
Cerchiamo di capire con un esempio cosa significa.
Pensiamo alla locazione di un immobile da destinare all’esercizio di un’attività commerciale non soggetta a sospensione e consideriamo il caso, assai frequente, che le parti abbiano convenuto un canone superiore alla media del mercato perché l’immobile è ubicato in una zona particolarmente frequentata (es. all’interno di un centro commerciale o vicino ad una stazione) e ciò rappresenta un beneficio per il conduttore. L’adozione di misure restrittive alla circolazione ridurrebbe però il passaggio di persone e quindi il numero di potenziali clienti. In un siffatto nuovo contesto, l’ubicazione dell’immobile rischierebbe di divenire irrilevante, se non addirittura pregiudizievole e in entrambi i casi il canone diventerebbe eccessivamente oneroso rispetto al nuovo stato di fatto e alla valutazione che può darsi all’immobile.
In tale situazione le parti possono avere interesse non già a risolvere il contratto (per tornare all’esempio: il conduttore non vuole cessare la sua attività o trasferirsi altrove, né forse il locatore può sperare di trovare un nuovo conduttore disposto a pagare quel canone), piuttosto a rivedere alcune clausole al fine di riequilibrare il valore delle prestazioni.
Attraverso la clausola coronavirus i contraenti potranno stabilire l’iter da seguire per avviare la rinegoziazione e apportare al contratto tutte quelle modifiche necessarie e sufficienti per mantenerlo in vita nel rispetto dei reciproci interessi.
La risoluzione sopraggiungerà solo nel caso in cui la rinegoziazione non dovesse andare a buon fine.
Consideriamo poi un altro caso, quello in cui le parti, prima della conclusione del contratto definitivo, sottoscrivono un preliminare. Può accadere che tra i due contratti intercorrano anche mesi. In questo lasso di tempo potrebbe palesarsi l’antieconomicità dell’intero affare o magari di alcune sue condizioni.
Pensiamo alla trattativa per l’acquisto di un ristorante e all’ipotesi che nelle more della sottoscrizione del definitivo emerga che il fatturato del ristorante è molto calato e non vi sono prospettive di una sua ripresa nel breve termine.
In tal caso la clausola coronavirus dovrebbe mirare a riconoscere un diritto di recesso in capo al soggetto che non ha più interesse a finalizzare la trattativa e sottoscrivere il contratto definitivo. Potrebbe sembrare che questa clausola, a differenza delle altre due, sia concepita per tutelare una sola parte. In realtà così non è.
Proprio la presenza di una sorta di via di fuga, consente di portare avanti o intraprendere nuove trattative. Attenzione, non si tratta di legittimare un recesso per mere ragioni di convenienza o per escludere la normale alea di rischio legata ad ogni contratto.
La possibilità di tirarsi indietro oppure di alleggerire l’impegno economico a fronte di una sensibile modifica di elementi macro economici, non imputabili alle parti, deve essere infatti sempre ancorata a parametri numerici ben definiti, apprezzabili oggettivamente.
I social fanno oramai parte della nostra quotidianità: li usiamo per lavoro, per interagire con gli amici, per farci conoscere.
Ricordiamoci, però, (e qui cito l’amica Roberta Zantedeschi) che virtuale è reale.
Questo significa che anche le pubblicazioni sui profili social espongono il loro autore a responsabilità civili, penali e, se sei un dipendente, anche disciplinari.
Le responsabilità dei dipendenti possono ricadere sul datore di lavoro
Le condotte social, quando sono fonte di responsabilità, non sempre esauriscono i loro effetti pregiudizievoli a carico del solo lavoratore.
Tutt’altro.
Le aziende, infatti, sanno bene che questi comportamenti rischiano di avere degli strascichi anche in danno del datore di lavoro.
Pensiamo al caso in cui un dipendente abbia diffuso attraverso il suo profilo social informazioni che avrebbero dovuto rimanere confidenziali. Non mi riferisco ai dati sensibili, ma a fatti: ad esempio, la pendenza di trattative (che avrebbero dovuto rimanere ancora riservate) con un nuovo cliente; la perdita di un cliente; la titolarità di un marchio o di un brevetto.
Ecco, in tali casi l’azienda rischia innanzitutto un danno alla propria reputazione per l’incapacità di preservare la riservatezza delle informazioni. In concreto ciò si traduce nella perdita e mancata acquisizione di nuovi clienti. Ma se la divulgazione di certe informazioni provocasse un danno in capo ad un soggetto terzo (ad esempio l’effettivo titolare del marchio che subisce un danno per la confusione creata circa la titolarità del segno distintivo), l’azienda potrebbe essere ritenuta personalmente responsabile del risarcimento di quel danno e tenuta quindi a sostenere un esborso di denaro.
Non tutto il male vien per nuocere
Le aziende sanno però anche che i dipendenti attraverso i loro profili social personali spesso veicolano le informazioni relative al brand: si tratta di condivisioni spontanee dei contenuti che l’azienda promuove sui propri social istituzionali e che, grazie alla condivisione dei lavoratori, raggiungono un maggior numero di utenti social e quindi di potenziali clienti.
La condivisione da parte del dipendente, inoltre, viene spesso percepita come un valore aggiunto al contenuto aziendale.
Ovviamente, tanto più le condotte social del dipendente sono improntate al buon senso e al rispetto tanto più i suoi contenuti saranno presi in considerazione e considerati attendibili. A queste condizioni, la condivisione di contenuti aziendali da parte del dipendente rappresenta un beneficio per il datore di lavoro.
La svolta: saper regolamentare l’uso dei profili social dei dipendenti
C’è uno strumento che consente alle aziende i) di prevenire o quantomeno contenere i rischi conseguenti alle condotte social dei dipendenti e ii) di fare ciò senza limitare i diritti e le libertà di espressione che le persone esercitano anche attraverso i social e infine iii) di godere dei vantaggi che possono conseguire dalla condivisione dei contenuti del brand attraverso i social personali dipendenti.
Questo strumento è la Social Media Policy Interna.
Giuridicamente la SMP è un regolamento aziendale attraverso il quale l’azienda stabilisce le regole di condotta cui devono attenersi i dipendenti o i collaboratori quando interagiscono sulle piattaforme social attraverso i propri profili personali.
Come redigere una buona Social Media Policy Interna
La SMP Interna, per essere efficace, presuppone che l’azienda abbia ben presente quali sono i suoi obiettivi (tutelarsi? promuovere il brand? entrambi?), quanto sia diffuso l’uso dei social tra i suoi dipendenti e soprattutto come interagiscono i dipendenti sui social (quale linguaggio utilizzano? quali notizie condividono? quali foto pubblicano? quale messaggio si percepisce scorrendo il loro profilo?).
Quindi la SMP deve essere il frutto di una analisi preventiva, indispensabile perché il regolamento sia in grado di rispondere ai bisogni dell’azienda anche e soprattutto in considerazione delle criticità riscontrate circa l’uso dei social da parte dei dipendenti.
Per questo è auspicabile che nel processo di elaborazione della SMP interna siano coinvolti, quanto più possibile, anche i dipendenti.
Se il confronto con i lavoratori rivelasse che molti di loro usano i social in modo potenzialmente pericoloso per sé e per l’azienda, quest’ultima dovrebbe prendere in seria considerazione di non limitarsi alla stesura della SMP ma avviare anche un vero e proprio percorso educativo e formativo dei dipendenti all’uso dei social.
Solo la consapevolezza e la comprensione da parte dei lavoratori dei rischi annessi e connessi all’uso dei social garantiscono il rispetto delle regole della policy. Ed invero in assenza di tale consapevolezza, le sanzioni anche gravi previste nella SMP Interna per il caso di sua violazione potrebbero non essere sufficienti ad impedire ai dipendenti di porre in essere certe condotte.
E’ importante poi che la SMP Interna contenga regole chiare, di facile comprensione, che non possano essere fraintese.
Con riguardo alle questioni solitamente più delicate quali ad esempio la possibilità per il dipendente di esprimere sui social opinioni in contrasto con alcuni valori o scelte aziendali, è bene che l’azienda non neghi mai il diritto o la libertà ma si concentri sulla regolamentazione del suo esercizio di modo da contemperare i vari interessi: del lavoratore a godere di quel diritto; dell’azienda a non subire pregiudizi e di entrambi a non vedere pregiudicato il rapporto di lavoro.
L’imposizione di divieti da parte dell’azienda, oltre che non risolutiva, rischierebbe di essere illegittima.
I giustificati motivi invocati dall’art. 9 della L. n. 898/1990 ai fini della revisione del diritto a percepire l’assegno divorzile o del suo ammontare possono essere individuati solo nei fatti sopravvenuti che modificano le condizioni economiche degli ex coniugi e l’assetto patrimoniale sussistenti al momento della pronuncia del provvedimento attributivo dell’assegno. Le nuove interpretazioni giurisprudenziali non sono qualificabili come fatti e quindi non possono legittimare una richiesta di revisione.
Premessa
Con la sentenza n. 11490 del 1990, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano affermato che l’assegno divorzile di cui all’art. 5 L. n. 898/1990 avesse carattere esclusivamente assistenziale e che il suo presupposto andasse individuato nella inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Tale orientamento è rimasto fermo per quasi un trentennio.
Si fa strada una differente interpretazione
Nel 2017 la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504 della Sezione I Civile, ha affermato che l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge che chiede di poter beneficiare dell’assegno divorzile deve essere valutata alla luce del principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge, da considerarsi ormai come persone singole.
Posto che la ragione dell’esistenza dell’assegno divorzile risiede nell’inderogabile dovere di solidarietà economica post coniugale, solo l’accertamento della condizione di non autosufficienza economica dà diritto a percepirlo.
In caso di accertata indipendenza o autosufficienza economica del coniuge più debole, non si può riconoscere in suo favore il diritto a percepire l’assegno divorzile ancorché le sue condizioni economiche non siano tali da garantirgli il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
L’autosufficienza, idonea ad escludere il diritto all’assegno divorzile, può essere desunta dal possesso di redditi di qualsiasi specie: es. titolarità di beni mobili e immobili, la disponibilità di una casa di abitazione, la capacità e la possibilità effettive di lavoro personale.
Si afferma un nuovo orientamento
A distanza di circa 30 anni, le Sezioni Unite con la sentenza n. 18287 del 2018 sono nuovamente intervenute per dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto in materia di assegno divorzile.
Questi i punti cardine in cui si possono riassumere le novità introdotte dalla citata sentenza ed a cui oggi occorre riferirsi al fine di valutare la sussistenza del diritto all’assegno divorzile ed il suo ammontare:
a) l’assegno divorzile mira a riconoscere al coniuge che lo richiede non solo il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, ma anche il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (natura assistenziale, compensativa e perequativa dell’assegno);
b) l’assegno divorzile non mira alla ricostituzione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo dato dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi;
c) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi in capo al richiedente e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive quali il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, la durata del matrimonio, l’età dell’avente diritto e le potenzialità reddittuali future.
La questione: il nuovo orientamento giurisprudenziale può fondare la richiesta di revisione dell’assegno divorzile?
Alla luce di questo nuovo orientamento, accade che un ex coniuge tenuto a corrispondere l’assegno divorzile riconosciuto durante la vigenza dell’orientamento del 1990, si rende conto che applicando i nuovi criteri l’ex coniuge beneficiario dell’assegno non avrebbe più diritto a percepire l’assegno, quantomeno non in quella misura, e anche per tale ragione ne chiede la revisione.
E’ questo il caso oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 1119/2020 – I Sezione Civile.
La Cassazione spiega che la revisione dell’assegno divorzile prevista all’art. 9 L. n. 898/1970 presuppone una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare l’assetto patrimoniale sussistente al momento della pronuncia del provvedimento attributivo dell’assegno. In sede di revisione il giudice non può quindi procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, ma deve limitarsi a verificare se ed in che misura siano sopravvenute circostanze di fatto che abbiano alterato l’equilibrio e, se accertate, adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale-reddituale.
Se il giudice accerta il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali, potrà procedere alla revisione dell’assegno divorzile sulla scorta, questa volta sì, dei rinnovati principi giurisprudenziali.
La Corte chiarisce che una nuova interpretazione giurisprudenziale non costituisce giustificato motivo idoneo a chiedere la revisione in quanto non è giuridicamente qualificabile come fatto né è fonte normativa.
Se si considerassero gli orientamenti giurisprudenziali quali giustificati motivi si rischierebbe di andare incontro a conseguenze incongrue, sia nell’ipotesi di un successivo ulteriore mutamento giurisprudenziale, sia nell’ipotesi in cui il giudice del merito non aderisse alla nuova linea interpretativa.
Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso dell’ex coniuge che chiedeva la revisione dell’assegno divorzile in forza del nuovo orientamento giurisprudenziale affermatosi ma non offriva alcuna prova circa l’intervenuta modifica delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi rispetto a quelle considerate dal giudice che aveva riconosciuto l’assegno in favore della ex moglie.
Il nuovo orientamento non può quindi inficiare i provvedimenti divenuti definitivi.
Caio è intestatario di un patrimonio, non necessariamente cospicuo, che però va gestito: es. l’appartamento dato in affitto; gli investimenti in banca.
Caio non è più giovanissimo oppure soffre di problemi fisici che gli rendono difficoltosi gli spostamenti o lo costringono ad assentarsi da casa per un tempo più o meno lungo per curarsi.
Caio è ancora perfettamente in grado di intendere e di volere ma vuoi per l’età vuoi per ragioni di salute, non può o non se la sente di continuare ad occuparsi personalmente dei propri beni.
O P P U R E
Caio intende semplicemente cautelarsi ed assicurarsi che vi sia continuità nella gestione del suo patrimonio e che, pertanto, questo non rimanga incustodito se improvvisamente non fosse più in grado di amministrarlo personalmente.
Caio rilascerà quindi una PROCURA GENERALE: conferirà, cioè, ad una persona di fiducia l’incarico ed i poteri di gestire il suo patrimonio in suo nome e per suo conto.
Ma se già esiste una procura generale, e vi è dunque un soggetto investito di tutti i poteri per gestire il patrimonio di Caio, ha senso porsi il problema della nomina di un amministratore di sostegno e quindi della coesistenza di due soggetti che possono agire in nome e per conto di Caio e ciò in forza di un titolo diverso?
Sì, perché il procuratore, ancorché munito di procura generale e ancorché gli siano stati conferiti i poteri più ampi possibili, non potrà mai spendere la procura in ambito sanitario.
Così se Caio dovesse essere considerato dai medici incapace di esprimere il proprio valido consenso per sottoporsi a cure o interventi sanitari, si renderà necessario nominare un amministratore di sostegno.L’amministratore di sostegno dovrà così esprimere in nome e per conto di Caio il consenso in ambito sanitario ma sarà altresì investito del compito di gestire il patrimonio di Caio.
La nomina di un amministratore di sostegno può essere provocata da un parente di Caio il quale, facendo leva sulla sopraggiunta incapacità o sulla ridotta capacità di intendere e di volere di Caio, promuova un procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno proponendo in tale ruolo se stesso o persona di propria fiducia (anziché persona di fiducia di Caio).
A prescindere dalle ragioni che hanno portato alla nomina di un amministratore di sostegno, la conseguenza è sempre la stessa: la procura soccombe con la nomina giudiziale dell’amministratore di sostegno.
La gestione del patrimonio di Caio, nonostante l’accortezza di quest’ultimo, rischia così di passare in mano ad una persona che non è quella prescelta e di discostarsi da quella voluta da Caio.
Cosa potrà dunque fare Caio per assicurarsi che il suo patrimonio continui ad essere amministrato da una persona di sua fiducia anche nel caso in cui la sua capacità di intendere e di volere venisse meno?
Caio potrà, con l’atto di conferimento della procura oppure con un altro atto pubblico o una scrittura privata autenticata, già designare la persona che dovrà essere nominata quale suo amministratore di sostegno laddove dovessero venire a sussistere i presupposti per ricorrere a questa misura di protezione.
In questo modo Caio potrà assicurarsi che il procuratore continui ad occuparsi della gestione del suo patrimonio ancorché con il diverso ruolo di amministratore di sostegno.