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No al rimborso delle spese per gli interventi di sistemazione della casa coniugale ricevuta in comodato gratuito

Abstract


Investire i soldi in casa d’altri non sempre dà diritto a ricevere dal proprietario un rimborso o un indennizzo. Ignorare questo rischio può portare allo spiacevole epilogo di perdere il diritto di godere dell’immobile e l’investimento fatto. Ecco un caso in cui ciò può verificarsi.

Il caso


Se un parente stretto (es. un genitore, un nonno) è proprietario di un immobile che non gode in altro modo, può capitare che lo metta gratuitamente a disposizione dei futuri coniugi affinché questi lo destinino a propria casa coniugale.
Gli sposi solitamente si fanno carico dei costi per i vari interventi di sistemazione della casa: vuoi perché l’immobile necessita effettivamente di manutenzione vuoi semplicemente per meglio adeguarlo alle esigenze della nuova famiglia.
E ben può essere che a seguito di tali interventi, soprattutto se sono ingenti sotto il profilo economico, il valore dell’immobile ci guadagni e magari anche parecchio.
Tutto quanto sopra, assai di frequente avviene senza troppe formalità. Al più, le parti formalizzano la concessione in comodato dell’immobile, ma più raramente proprietario e sposi decidono di prevedere una regolamentazione delle spese per la sistemazione dell’abitazione.

La regola

L’immobile concesso in comodato per essere destinato a casa coniugale non può essere chiesto in restituzione dal proprietario per tutto il tempo in cui mantiene questa destinazione, quindi finché dura il matrimonio oppure, a prescindere dal perdurare del matrimonio, finché debba essere salvaguardato il diritto di abitazione della prole in quella casa.
Per cui, se il matrimonio ha una lunga durata o vi è un perdurante diritto della prole di godere l’immobile, l’investimento fatto dagli sposi per la sistemazione della casa può considerarsi ammortizzato dal godimento e ciò soprattutto se le cifre spese sono state contenute e gli interventi realizzati non eccessivamente invasivi.


Il problema


In assenza di figli in favore dei quali debba essere tutelato il diritto di abitazione in quell’immobile, se si verifica la separazione dei coniugi oppure il decesso di uno di essi, viene meno la destinazione dell’immobile a casa coniugale. Ciò significa che il proprietario potrà reclamare in restituzione l’immobile.
Se quindi l’immobile dovesse essere restituito al proprietario dopo un breve godimento, l’investimento fatto dai coniugi per sistemare la casa coniugale potrebbe costituire un problema: i coniugi separati o uno di essi oppure il coniuge superstite, dopo aver perso il diritto a godere dell’immobile, infatti, cercheranno almeno di recuperare parte dei soldi investiti nella casa coniugale reclamando il rimborso di quanto speso o un indennizzo per il maggior valore acquisito dalla abitazione.
Spetta il rimborso?
Il proprietario può ricevere in restituzione un immobile che ha ora un maggior valore grazie agli interventi operati dai coniugi e nulla dovere a questi a titolo di indennizzo?

La normativa in materia di comodato (art. 1808 c.c.) e la giurisprudenza sono chiare: il comodatario ha diritto a vedersi rimborsate solo le spese sostenute per per far fronte ad improcrastinabili esigenze di conservazione della cosa. Le spese sostenute per altre ragioni, anche se comportano un miglioramento dell’immobile, non danno diritto ad alcuna forma di rimborso o indennizzo.
I coniugi che decidono di sostenere delle spese di manutenzione per ragioni diverse da quelle di conservazione della casa, quindi, lo fanno nel loro esclusivo interesse e devono sapere che non potranno poi reclamarne il rimborso o un indennizzo dal proprietario. Del maggior valore acquisito dall’immobile potrà quindi godere il proprietario senza dovere alcun corrispettivo.


Il rimedio


Come possono pertanto tutelarsi i coniugi che decidono di investire del denaro in interventi di sistemazione della casa coniugale di cui godono in forza di un contratto di comodato gratuito?
Una buona soluzione potrebbe essere quella di redigere una scrittura privata che anzitutto preveda e poi regolamenti il diritto di rimborso o di indennizzo in favore dei coniugi per il caso di rilascio della casa coniugale se questa perdesse la sua destinazione. L’utilità della scrittura non sarebbe solo quella di definire l’esistenza del diritto al rimborso o all’indennizzo, ma anche quella di fare chiarezza sulla tipologia dei lavori eseguiti e sul loro ammontare.
Ma attenzione: questa scrittura privata potrebbe tornare utile anche nel caso in cui, senza voler essere per forza pessimisti, i coniugi decidessero semplicemente di cambiare casa e trasferirsi altrove. Anche in questo caso, infatti, a fronte di un investimento consistente e di un godimento breve, potrebbe – in vista del rilascio – porsi il problema di un rimborso o indennizzo.


Per approfondimenti, consulenza ed assistenza sull’argomento, lo Studio Legale Poggi è a disposizione all’indirizzo mail info@avvpoggi.it.

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Casa pagata da un solo coniuge ma costruita sul terreno di proprietà dell’altro coniuge

Se uno dei due coniugi è proprietario di un terreno edificabile, è assai probabile che la coppia decida di costruirvi sopra un immobile da destinare a casa coniugale, oppure a seconda casa, o magari anche solo come investimento.
Se l’immobile viene costruito a spese del coniuge non proprietario del terreno, a chi apparterrà la casa?
Verrebbe da dire, a chi l’ha pagata.
Ma è proprio così?

Il principio: chi è proprietario del terreno diventa proprietario anche di ciò che ci viene costruito sopra.

Per legge (art. 934 c.c.) qualunque costruzione edificata sopra il suolo appartiene al proprietario di questo.
Il proprietario di un terreno, in quanto tale, diviene così proprietario anche di ciò che ci sta già sopra o che verrà successivamente costruito sopra.
L’estensione del diritto di proprietà dal terreno a ciò che vi sta sopra è automatico ed opera per il solo fatto della avvenuta incorporazione di un bene materiale (fabbricato) al suolo.
Giuridicamente si parla di accessione.

L’accessione nei rapporti tra coniugi.

Se il soggetto proprietario del terreno e quello che paga la costruzione dell’edificio sono coniugi, c’è qualche eccezione alla regola della accessione?
La questione si pone con riguardo ai coniugi in regime di comunione legale dei beni nel caso in cui il terreno sia di proprietà esclusiva di uno solo di essi e, in costanza di matrimonio, venga edificata sopra quel terreno una casa a spese, però, dell’altro coniuge.
Poiché l’acquisto della proprietà per accessione non richiede alcuna manifestazione di volontà e poiché la normativa che disciplina la comunione legale tra i coniugi non prevede una deroga alla disciplina generale della accessione, il coniuge proprietario del terreno diventerà automaticamente anche proprietario dell’edificio che durante il matrimonio sia stato costruito sopra quel terreno e ciò a prescindere dalla provenienza dei danari impiegati per la costruzione.

La tutela che spetta a chi ha costruito la casa a proprie spese sul terreno di proprietà esclusiva di un altro soggetto.

Se l’aver costruito a proprie spese la casa non consente al coniuge di esserne riconosciuto proprietario, ciò non significa che questo sia privo di una tutela.

La tutela gli riconosce un diritto di credito nei confronti dell’altro coniuge che, in quanto proprietario del terreno, sia divenuto anche proprietario del fabbricato.

E qui, però, si profilano altre problematiche.

Anzitutto, in termini di prova.

Il coniuge che afferma che l’immobile sia stato costruito con i suoi soldi, infatti, dovrà dare dimostrazione degli esborsi personalmente sostenuti a tal fine e non potrà quindi invocare un generico diritto di credito derivante dal regime patrimoniale della comunione.

Sarà quindi bene tenere traccia documentale di tutti i pagamenti eseguiti e delle relative causali.

Altro problema, e non di poco conto, è poi quello di ricevere effettivamente il pagamento del credito.

Non è infatti detto che il coniuge che deve il rimborso disponga della liquidità sufficiente.

Certo, l’immobile potrebbe essere aggredito.

Ma se nel frattempo l’immobile fosse stato alienato o non fosse conveniente aggredirlo ad esempio perché ipotecato?

Oltre al giudizio per vedersi riconosciuto il diritto di credito, si rischia di doverne instaurare un altro per dare (forse) esecuzione a quel credito.

Il consiglio in più.

Vedersi riconosciuto un diritto non equivale quindi a vederlo soddisfatto.

Così se ci si attiva per tutelare il diritto di credito a distanza di anni e per di più quando i rapporti tra i coniugi si sono deteriorati, il rischio è quello di rimanere senza l’immobile e di rimetterci i soldi investiti nella sua costruzione.

Molto più tutelante sarebbe quindi muoversi in anticipo e vedersi riconosciuta la proprietà dell’immobile.

Come?

Ad esempio, disponendo con un atto scritto la rinuncia all’accessione da parte del coniuge proprietario del fondo e contestualmente riconoscendo la proprietà della costruzione in corso in capo all’altro coniuge che se ne sta facendo carico.

Oppure, se l’immobile è stato realizzato, disporre (o prevedere quantomeno un impegno a disporre) il trasferimento della sua proprietà dal coniuge che ne è divenuto proprietario per accessione all’altro che ha sostenuto i costi per la sua costruzione.

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Proprietà, diritto di usufrutto e diritto di abitazione: tutela e regolamentazione di rapporti economici e patrimoniali tra coniugi

Vuoi tutelare il tuo coniuge assicurandogli che, se tu non ci sarai più o non sarai più in grado di provvedere a lui/lei, non gli/le manchi una casa in cui abitare senza dover sostenere esborsi per acquistarla o affittarla.

Oppure devi riequilibrare i rapporti economici con il tuo coniuge.

O ancora, devi regolamentare i rapporti economici e patrimoniali con il tuo (ex) coniuge nel corso di un procedimento di separazione o di divorzio.

Quale sia la finalità, intendi perseguirla disponendo in favore del tuo coniuge di un immobile di cui sei proprietario.

A seconda del grado di tutela che hai in animo di offrire al tuo coniuge e/o della ragione (solo economica o anche affettiva) alla base di questa tua decisione, si prospettano varie soluzioni.

Vediamole.

1. Il trasferimento della proprietà dell’immobile

La più ampia forma di tutela è certamente rappresentata dal trasferimento del diritto di proprietà dell’immobile.

Questo caso si realizza quando un coniuge trasferisce all’altro la proprietà di un immobile di cui è già proprietario (ovviamente senza richiedere alcun corrispettivo) ma anche quando un coniuge paga con propri soldi il prezzo di un immobile il cui acquisto si perfeziona definitivamente in capo all’altro.

La piena ed esclusiva proprietà di un immobile consente al suo proprietario di poterne liberamente disporre.

Così, se si tratta di un immobile ad uso abitativo, il coniuge, che grazie alla disposizione dell’altro ne è divenuto proprietario, potrà decidere se abitarlo personalmente oppure alienarlo o ancora concederlo in locazione.

L’intestazione di una proprietà immobiliare, quindi, offre la maggiore tutela perché non solo garantisce una casa in cui abitare ma – al bisogno – il coniuge beneficiario potrebbe da quel bene ricavare liquidità o una rendita.

Ovviamente questa disposizione è anche quella che importa il maggior sacrificio per il patrimonio del coniuge disponente: l’immobile, infatti, esce definitivamente dalla sua sfera patrimoniale per entrare in quella di un altro soggetto.

2. La costituzione del diritto di usufrutto

Il diritto di usufrutto è il diritto di un soggetto (che si chiama usufruttuario) di godere di un immobile di proprietà di un altro soggetto (che si chiama nudo proprietario) e di raccoglierne i frutti, salvo l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene.

Riconoscendo il diritto di usufrutto in favore dell’altro coniuge su un proprio immobile, quindi, non ci si spoglia della proprietà, ma questa è nuda, perché viene privata del possesso e del godimento che passano in capo all’usufruttuario.

Il coniuge che si vede riconosciuto il diritto di usufrutto acquisisce quindi il possesso dell’immobile e ne può godere ad esempio abitandolo se si tratta di un immobile ad uso abitativo, oppure cedendo il proprio diritto a terzi (se ciò non gli è stato vietato dal titolo costitutivo del diritto), o locando il bene, concedendo ipoteca e reclamando un’indennità alla cessazione dell’usufrutto per le migliorie eventualmente apportate al bene stesso.

Alla morte dell’usufruttuario, il diritto di usufrutto si estingue e la nuda proprietà dell’immobile torna ad essere piena: possesso e godimento tornano quindi in capo al proprietario.

Certo, l’usufruttuario non potrà alienare l’immobile, ma anche questa soluzione assicura un’ampia tutela al coniuge usufruttuario: per tutta la durata della sua vita, infatti, potrà goderne abitandolo o persino mettendolo a reddito ad esempio con un contratto di affitto.

E il sacrificio del patrimonio del coniuge proprietario è temporaneo.

3. Il diritto di abitazione

E’ il diritto di abitare un immobile.

Il diritto di abitazione spetta al suo titolare e alla sua famiglia, i quali potranno alloggiare nell’immobile limitatamente ai propri bisogni.
Quindi, se si tratta di un immobile molto grande, non è detto che il diritto si estenda all’intero immobile.

In caso di coniugi, spetta per legge il diritto di abitazione sulla casa coniugale in favore del coniuge del proprietario defunto.

Cionondimeno, può tornare utile questo diritto se si vuole tutelare il coniuge a prescindere dal proprio decesso oppure per regolamentare i rapporti economici e patrimoniali tra coniugi in sede di separazione o divorzio o ancora se il diritto non riguarda la casa coniugale.

Il diritto esisterà finché il suo titolare abiterà nell’immobile: ciò significa che si estinguerà alla morte del beneficiario oppure se il beneficiario cesserà di abitarvi.

Viene da sé, quindi, che il diritto di abitazione non potrà essere ceduto e che dell’immobile non potrà in alcun modo disporsi.

Il consiglio in più

La scelta tra una delle soluzioni sopra elencate dipende certamente dal grado di tutela che un coniuge vuole offrire all’altro.
Attenzione però.
Oltre a valutazioni soggettive ed economiche legate ai rapporti tra i coniugi, occorre tenere in debita considerazione – laddove ve ne fossero – i diritti degli eredi del coniuge disponente.
A fronte, ad esempio, di un patrimonio modesto, il trasferimento della intera proprietà di un immobile potrebbe ledere la quota di legittima spettante agli eredi con il conseguente rischio per il coniuge beneficiario di subire un’impugnazione dell’atto di trasferimento. Meglio allora sarebbe, in un tale caso, ad esempio optare per il diritto di abitazione: più modesto, certo, ma proprio per tale ragione magari più sicuro perché porrebbe al riparo dal rischio di ledere la quota di legittima spettante agli altri eredi.

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Coniugi in separazione dei beni: immobile pagato per intero da uno di essi ma intestato all’altro

Il caso

Capita sovente, nei rapporti tra coniugi, che un immobile sia acquistato utilizzando i soldi di uno solo di essi ma venga intestato in parte o addirittura per l’intero all’altro coniuge ancorché questo non abbia sostenuto alcun esborso con riguardo a quell’immobile.

In questo modo le parti intendono regolamentare determinati rapporti economici tra loro pendenti oppure gestire una certa situazione patrimoniale che riguarda entrambi oppure uno solo di essi.

Due scenari

A.- Se l’intestazione in favore di un coniuge corrisponde alla effettiva volontà di trasferire a quest’ultimo un bene che rimanga definitivamente nel suo patrimonio, evidentemente non si porranno problemi.

L’atto così posto in essere tra i due coniugi, infatti, coincide esattamente con la regolamentazione che le parti volevano realizzare a prescindere dalle vicende riferibili al legame matrimoniale. 

B.- Ma la maggior parte delle volte, il coniuge che paga il prezzo dell’immobile pur non divenendone proprietario, in realtà non intende rinunciare a questo bene. Tant’è, infatti, che è lui ad amministrarlo. Il coniuge intestatario, invece, pur essendone formalmente il proprietario, non può disporre dell’immobile, o meglio, non ne può liberamente disporre. 

In questi casi si assiste ad una intestazione fittizia. 

I coniugi hanno cioè inteso acquistare un immobile ma hanno posto in essere una simulazione con riguardo al soggetto acquirente.

Per tale ragione la compravendita è solitamente accompagnata anche da un accordo tra i coniugi circa i tempi e le modalità del trasferimento dell’immobile in capo al coniuge che l’ha pagato.

Se i coniugi andranno sempre d’amore e d’accordo, non ci saranno problemi neppure nelle questioni relative alla gestione della intestazione di quell’immobile. 

Ma se invece l’amore finisse e i coniugi iniziassero a litigare? Che ne sarà di quell’immobile?

In caso di separazione, è assai probabile che una delle prime cose che farà il coniuge che ha pagato l’intero prezzo, sarà quella di reclamarne la piena ed esclusiva proprietà o il rimborso del prezzo a suo tempo corrisposto.

Ma ne ha diritto?

Volontà e forma degli atti

Per rispondere a questa domanda occorre avere riguardo agli atti posti in essere dalle parti e precisamente a come esse hanno formalizzato, cioè messo nero su bianco, le loro volontà.

Poniamo il caso che i coniugi avessero stabilito che il coniuge beneficiario avrebbe dovuto restituire la proprietà all’altro quando ciò gli fosse stato richiesto.

Se le parti, a fronte di una siffatta intesa, si fossero però limitate ad intestare l’immobile a favore del coniuge che nulla ha pagato e solo verbalmente si fossero accordate per il futuro trasferimento in capo al coniuge che ha corrisposto l’intero prezzo, a quest’ultimo, purtroppo, non spetterebbe alcuna tutela.

La prova di aver pagato l’intero prezzo con denaro proprio non è sufficiente, così come non vale la prova dell’accordo circa la restituzione dell’immobile fornita attraverso le testimonianze.

Per legge, infatti, se la simulazione, quale è l’intestazione fittizia, riguarda un contratto che deve avere la forma scritta ad substantiam (es. compravendite immobiliari) anche la dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto in tutto o in parte diverso da quello sottoscritto deve avvenire per iscritto.

L’atto dal quale risulti l’intento comune delle parti di dare vita ad un contratto diverso da quello che è stato concluso si chiama controdichiarazione.

Per cui, se un coniuge paga l’intero prezzo di acquisto ma l’immobile viene fittiziamente intestato all’altro coniuge, il primo, per garantirsi il diritto di reclamare in restituzione l’immobile dovrà sottoscrivere con l’altro coniuge una controdichiarazione da cui risulti la reale volontà delle parti rispetto all’intestazione di quell’immobile.

In mancanza della prova scritta contenuta nella controdichiarazione, il coniuge che ha disposto in favore dell’altro non potrà avere alcuna tutela.

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Il condominio e la questione del diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni

Il caso

Capita sovente di rinvenire negli atti anche notarili e nei regolamenti una clausola mediante la quale viene concesso ad una singola unità immobiliare o comunque solo ad alcune l’uso esclusivo di un’area condominiale comune o di una porzione di essa. 

Si parla di diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni.

Ciò accade, ad esempio, con riguardo alle aree comuni adibite a cortile o a giardino e concesse in uso esclusivo ai condomini proprietari degli appartamenti al piano terra.

Si viene così a creare una situazione di questo tipo: uno o alcuni condomini acquisiscono attraverso un atto negoziale (contratto, regolamento condominiale, delibera assembleare) un diritto reale (perché è legato all’unità immobiliare e la segue) di uso esclusivo di una parte comune ma allo stesso tempo tutti gli altri condomini non si spogliano né del diritto di comproprietà né del loro diritto di uso sulla cosa comune, ancorché di fatto non ne possano più godere. A questi rimane sì un diritto di comproprietà svuotato però del suo nucleo fondamentale: l’uso, appunto.

Evidentemente qualcosa non torna.

Sul tema è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con una sentenza a Sezioni Unite (17 Dicembre 2020, n. 28972) facendo chiarezza e prendendo una posizione destinata a rivoluzionare (o forse meglio, ribaltare) ciò che è stato sinora.

Andiamo per ordine e capiamo perché il diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni non può legittimamente sussistere.  

L’uso delle parti comuni condominiali

Anzitutto: cosa si intende per uso delle parti comuni condominiali?

L’uso è la facoltà riconosciuta a ciascun condomino di servirsi di una parte comune, di trarre da essa delle utilità nel rispetto, ovviamente, della sua destinazione. 

L’uso è quindi uno dei modi attraverso i quali si esercita il diritto di proprietà dei condomini.

Ricordiamo, poi, che in forza dell’art. 1102 c.c., l’uso della cosa comune deve sempre rispettare il limite di non impedire agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

L’uso delle parti comuni tra i condomini dovrebbe così essere paritario, promiscuo e simultaneo.

Certo vi sono parti comuni (es. scale e ascensori) che per loro natura sono utilizzate in modo più intenso solo da alcuni condomini rispetto ad altri: il mancato paritario godimento è però compensato da un maggiore concorso alle spese a carico di chi fa della cosa comune un uso più intenso.

O ancora, vi sono parti comuni (es. posti auto nel cortile) che magari non possono essere godute simultaneamente da tutti i condomini, ciò nondimeno la turnazione nel godimento consente un uso paritario.   

Uso esclusivo e parti comuni

Quando si parla di uso esclusivo di parti comuni si intende, invece, che l’uso si concentra in capo ad uno o ad alcuni condomini soltanto.

In materia di condominio, troviamo solo una norma che prevede un uso esclusivo con riferimento a delle parti comuni. 

E’ l’art. 1126 c.c. che riguarda i lastrici solari e stabilisce che se l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico; gli altri due terzi sono invece a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno. 

L’art. 1126 c.c. attiene quindi ad una situazione particolare: i lastrici solari, infatti, svolgono una funzione necessaria di copertura dell’edificio e in quanto tali sono parti comuni. Essi, però, per la loro conformazione ed ubicazione possono essere oggetto di calpestio ma soltanto da parte di uno o alcuni condomini. Siffatto uso esclusivo del lastrico solare non priva gli altri condomini di alcunchè, perchè essi non vi potrebbero comunque di fatto accedere e in ogni caso viene conservato l’uso comune del lastrico solare che è quello di essere una copertura.

Stante la peculiarità della disciplina contenuta nell’art. 1126 c.c., tale norma non può prestare il fianco ad interpretazioni estensive e legittimare, con riferimento ad altre parti comuni condominiali (es. giardini, cortili), la costituzione di un diritto reale di uso esclusivo in favore di alcuni condomini.

L’uso esclusivo su parti comuni non può essere un diritto reale.

Appurato che nel nostro ordinamento non vi è una norma che prevede un diritto reale di uso esclusivo sulle parti comuni condominiali, qual è il fondamento giuridico del diritto di uso esclusivo su parti comuni di cui si legge nei contratti e nei regolamenti condominiali? 

Come può giustificarsi la totale compressione del godimento spettante ai condomini sulla cosa comune a fronte della creazione di un diritto reale di uso esclusivo in favore di uno o alcuni di essi? 

Se dunque non c’è una norma che lo contempli, il diritto di uso su parti comuni non può che essere il prodotto dell’autonomia negoziale.

Ma possono le parti prevedere la costituzione di un siffatto diritto?

Le Sezione Unite della Corte di Cassazione hanno dato una risposta negativa.

Il diritto di uso di cui si sta parlando viene considerato quale diritto reale (segue l’immobile) e pertanto, vertendo in materia di diritti reali, vanno considerati e rispettati due principi: quello del numerus clausus dei diritti reali e quello della tipicità di essi. 

Questi principi ci insegnano che solo la legge può istituire diritti reali e che i privati non possono incidere sul loro contenuto siccome previsto e disciplinato dalla legge.

Tale rigore trova la sua giustificazione nel fatto che i diritti reali seguono l’immobile e sono opponibili ai terzi. 

Consentire alle parti di creare diritti reali atipici, cioè diritti reali non previsti per legge, significherebbe vincolare non solo le parti ma anche terzi estranei (es. acquirenti) ad un diritto che rischia di non avere alcuna chiara regolamentazione, a scapito della certezza dei traffici giuridici (a maggior ragione se si considera che siffatto diritto non rientra tra quelli trascrivibili).

Poiché nel nostro ordinamento non è configurabile la costituzione di diritti reali al di fuori dei tipi tassativamente previsti dalla legge e poiché non vi è una norma che lo preveda, non può validamente riconoscersi un diritto reale di uso su parti comuni.

Che fare quindi con l’atto che ha previsto la costituzione di un diritto reale di uso su parti comuni? 

Se le parti hanno previsto un diritto di uso su parti comuni ma tale diritto, per le ragioni sopra spiegate, non è valido, che ne è dell’atto o della clausola che lo ha previsto?

Occorrerà verificare, caso per caso, quale era la volontà delle parti: limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante (nel qual caso l’atto o la clausola non potrebbe che essere travolti dall’invalidità), oppure trasferire la proprietà (nel qual caso, invece, l’atto o la clausola sarebbero salvi) .

Questa volontà può essere accertata facendo anzitutto riferimento al senso letterale delle parole. 

Al riguardo l’espressione “diritto di uso esclusivo” osterebbe ad una interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà.

Tuttavia, accanto al dato letterale, nell’interpretare la volontà delle parti occorre considerare anche ulteriori elementi, testuali ed extratestuali.

Così un’espressione apparentemente chiara perché parla di un diritto di uso, potrebbe non esserlo più se si considerassero altre dichiarazione contenute nello stesso atto o le condotte poste in essere dalle parti.

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Abitabilità/agibilità dell’immobile: quale grado di diligenza è richiesto al mediatore per evitare l’inadempimento contrattuale e il risarcimento dei danni all’acquirente.

Abstract
Quando il contratto di mediazione immobiliare può dirsi correttamente adempiuto da parte del mediatore? E a quali rischi va incontro il mediatore che non abbia adempiuto con diligenza all’incarico? Lo vediamo con particolare riferimento alla problematica della (mancata) abitabilità/agibilità dell’immobile da destinarsi ad uso abitativo oggetto di compravendita.

L’inadempimento di un’obbligazione contrattuale, si sa, obbliga la parte inadempiente alla restituzione di quanto ricevuto dall’altro contraente e, ove ravvisabile un danno, anche al suo risarcimento.
Ciò vale anche nel campo della mediazione immobiliare.

Un caso concreto


Prendiamo il caso di una agenzia immobiliare che abbia ricevuto l’incarico di assistere un acquirente nella ricerca di una nuova abitazione.
L’acquirente, per il tramite dell’agenzia, trova una villetta che fa al caso suo e sottoscrive così con il venditore un contratto preliminare di compravendita.
Il promissario acquirente corrisponde all’agenzia immobiliare la provvigione e al promittente venditore una caparra confirmatoria e un acconto sul prezzo.
La pratica viene quindi presa in carico dal notaio per la stipula del rogito.
E qui l’amara sorpresa: l’immobile presenta gravi irregolarità edilizie ed urbanistiche tanto da essere sprovvisto del certificato di abitabilità/agibilità.
Il promissario acquirente diffida il promittente venditore e l’agenzia immobiliare a porre in essere tutti gli adempimenti necessari a garantire la abitabilità dell’immobile.
Nè il promittente venditore nè l’agenzia immobiliare si attivano, per cui il promissario acquirente recede dal contratto preliminare e chiede la restituzione di quanto versato a titolo di acconto e il pagamento della caparra confirmatoria.
Poiché anche questa volta non c’è alcun riscontro, il promissario acquirente agisce in giudizio nei confronti del promittente venditore. Il Giudice, accertata la legittimità del recesso, condanna il promittente venditore alla corresponsione della caparra confirmatoria, alla restituzione dell’acconto e alla rifusione delle spese legali in favore del promissario acquirente.
Il promittente venditore, seppur condannato, nulla versa per cui il promissario acquirente agisce esecutivamente nei suoi confronti, ma l’iniziativa è infruttuosa.
Può il promissario acquirente ora rivalersi nei confronti dell’agenzia immobiliare? E se sì, cosa può reclamare dall’agenzia?

L’inadempimento contrattuale del mediatore immobiliare e il dovere di comunicazione


L’art. 1759 c.c. stabilisce a carico del mediatore il dovere di comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione ed alla sicurezza dell’affare e che possono influire sulla conclusione di esso.
Stante la sussistenza, a monte, dell’obbligo di comportarsi sempre secondo correttezza e buona fede, il dovere di riferire le circostanze rilevanti per la valutazione e la sicurezza dell’affare si estende anche al caso in cui si tratti di circostanze che l’agente avrebbe dovuto conoscere con l’uso della diligenza da lui ordinariamente esigibile.
Rientrano, ad esempio, tra le informazioni che il mediatore immobiliare deve dare alle parti quelle sull’esistenza di iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli.
Non rientrano, invece, nell’ordinaria diligenza le risultanze di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, a meno che non siano state oggetto di uno specifico incarico.

Il dovere di comunicazione riferito alla abitabilità dell’immobile


Il certificato di abitabilità/agibilità è un attestato che testimonia che un immobile è abitabile, ossia risponde ai requisiti di igiene, sicurezza e risparmio energetico.
Il certificato di abitabilità/agibilità serve per vivere all’interno di un immobile; comprare, vendere o affittare una casa o un locale commerciale; intraprendere qualsiasi attività economica all’interno dell’immobile; per ottenere il ricongiungimento familiare.
Il certificato di abitabilità/agibilità deve essere fornito dal proprietario di casa.
Venendo al caso specifico della abitabilità/agibilità dell’immobile, la giurisprudenza ravvisa una responsabilità del mediatore per mancata informazione circa la conseguibilità del relativo certificato nei soli casi in cui:
i) il mediatore abbia taciuto informazioni e circostanze delle quali era a conoscenza oppure abbia riferito circostanze in contrasto con quanto a sua conoscenza. Il che, riportato al caso concreto, significa che il mediatore era a conoscenza della mancanza del certificato di abitabilità/agibilità o di irregolarità edilizie ed urbane ma non lo abbia riferito al promissario acquirente oppure che abbia riferito che l’immobile era a norma;
ii) il mediatore sia stato espressamente incaricato dal committente o da uno dei committenti di procedere ad una verifica in merito al certificato di abitabilità, e non abbia adempiuto all’incarico oppure vi abbia adempiuto erroneamente.
L’ipotesi al punto ii) implica un inadempimento di un diverso ed ulteriore contratto rispetto a quello di mediazione.
Ma se manca una esplicita richiesta da parte del committente di verificare l’abitabilità/agibilità dell’immobile, quale è il grado di diligenza che deve rendere il mediatore in ordine a questo aspetto?
Ebbene, se l’incarico ha per oggetto il reperimento di un immobile ad uso abitativo, il mediatore è tenuto a riferire all’acquirente tutte le circostanze a lui note afferenti l’abitabilità/agibilità posto che questa rappresenta un elemento incidente sulla valutazione dell’affare.
Ne consegue che l’agenzia che sottace all’acquirente l’assenza di una caratteristica fondamentale dell’immobile, incorre nella responsabilità del mediatore ex art. 1759, I comma, c.c.

E chi paga i danni?


Veniamo ora ai danni.
Una volta accertato l’inadempimento da parte del mediatore, quale esborso questo deve prepararsi ad affrontare a titolo di risarcimento del danno patito dall’acquirente?
Certo il mediatore dovrà restituire la provvigione ricevuta.
Ma non solo.
Secondo la giurisprudenza, se il venditore, come nel caso che abbiamo considerato, non dovesse integralmente rifondere all’acquirente la parte di prezzo ricevuta, l’acquirente potrà reclamarne il rimborso all’agenzia immobiliare.
Ma non solo.
L’agente immobiliare sarà altresì tenuto a rifondere all’acquirente le spese legali da questo sostenute per tutte le iniziative promosse nei confronti del venditore a tutela del proprio credito e rivelatesi infruttuose.
Insomma, tutte le somme che l’acquirente non ha potuto recuperare dal venditore anche a titolo di rimborso delle spese necessarie per le attività giudiziali, possono essere poste a carico del mediatore atteso che tutte queste spese trovano la loro causa nell’inadempimento contrattuale dell’agente.

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Se il figlio minore si fa male, chi decide i termini dell’accordo per il risarcimento del danno?

Abstract

Quando occorre prendere delle decisioni che interessano i minori, si dà per scontato che i genitori abbiano la più ampia autonomia, o meglio, si dà per scontato che se tra i genitori vi sia l’accordo circa la decisione da assumere, il consenso da questi espresso in nome e per conto del figlio sia sufficiente a definire la vertenza. Ma è proprio così?

Il caso

Poniamo il caso di un minore che abbia subito una lesione ad es. a scuola, oppure per strada per colpa di un veicolo o ancora in seguito ad un’aggressione da parte di un’altra persona o di un animale. Occorre chiedere il risarcimento dei danni fisici e non provocati dalla lesione.

Chi può agire in nome e per conto del minore ai fini del risarcimento?

I genitori, certo, salvo ovviamente il caso in cui non sia stata limitata la loro responsabilità genitoriale.

Ma il danneggiante o comunque il terzo tenuto al ristoro del danno (es. compagnia di assicurazione) a cui i genitori del minore abbiano indirizzato la richiesta di risarcimento, può stare tranquillo e ritenere chiusa la vertenza se raggiunge e dà esecuzione ad un accordo transattivo accettato e sottoscritto dai genitori?

Le criticità

La decisione dei genitori potrebbe non tutelare il minore: la necessità di liquidità oppure una errata valutazione dell’entità del danno potrebbero, ad esempio, indurre i genitori ad accettare una proposta eccessivamente modesta ed insufficiente a coprire il danno presente e futuro patito dal minore. 

E ancora, posto che il risarcimento riguarda un danno patito dal minore, occorre anche essere sicuri che i genitori impieghino i soldi nel suo interesse

E’ quindi corretto domandarsi se sia necessario – a tutela del minore – un controllo da parte di un soggetto terzo (Giudice) circa il fatto che i termini della transazione siano idonei a ristorare il danno e le somme a tale titolo incassate saranno riservate al minore.

Il problema non è di poco conto perché se chi doveva risarcire il danno ha sì pagato ma, come si suol dire, ha pagato male (es. i genitori hanno destinato ad altro la somma spettante al minore) o poco, al danneggiante potrebbe essere chiesto di effettuare un altro pagamento (con il risultato di dover pagare due volte per il risarcimento del danno) o di integrare la somma dovuta a titolo di risarcimento.   

Di qui l’importanza di capire se e quando un accordo avente ad oggetto il risarcimento dei danni patiti dal minore possa considerarsi “tombale” con il solo consenso dei genitori e quando, invece, occorre integrarlo con l’autorizzazione da parte del Giudice.

Cosa ci dicono la legge e la giurisprudenza

L’art. 320 c.c. stabilisce che i genitori necessitano dell’autorizzazione del Giudice Tutelare se – in nome e per conto del figlio – devono, tra l’altro, riscuotere capitali e compiere atti di straordinaria amministrazione.

Questo significa anzitutto che non tutti gli atti che i genitori compiono in nome e per conto del minore e relativi al suo patrimonio necessitano di un’autorizzazione da parte del Giudice Tutelare. 

Solo alcuni, e precisamente quelli di straordinaria amministrazione.

Ma quali sono gli atti di straordinaria amministrazione?

Nell’art. 320 c.c. ne troviamo elencati alcuni (es. alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte; accettare o rinunziare ad eredità o legati; accettare donazioni; procedere allo scioglimento di comunioni; contrarre mutui o locazioni ultranovennali) ma questa elencazione non è esaustiva tant’è che l’art. 320 c.c. parla di altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.

Posto che la legge non precisa quali siano questi altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato vari criteri.

La scelta di un criterio piuttosto che di un altro è tutt’altro che una questione puramente teorica perché il risultato potrebbe essere quello di addivenire ad una differente qualificazione all’atto, con rilevanti conseguenze in termini di validità e definitività dello stesso.

La transazione: quando è atto di ordinaria amministrazione e quando è atto di straordinaria amministrazione

Circoscrivendo il discorso all’oggetto della presente trattazione, e quindi alla qualificazione come atto di ordinaria o straordinaria amministrazione della transazione avente ad oggetto il risarcimento del danno subito dal minore, possiamo dire che la giurisprudenza ha elaborato dei punti fermi.

Tale transazione costituisce atto di straordinaria amministrazione quando ha per oggetto un danno che, per la sua natura e entità, incide profondamente sulla vita presente e futura del minore danneggiato (Cass. 4562/1997).

La transazione, quindi, in sé è un atto di ordinaria amministrazione che – al ricorrere di particolari circostanze – può assumere natura di atto straordinario.

Quali sono queste circostanze?

Il rapporto controverso, il suo contenuto ed i suoi effetti.

Rientrano, quindi, tra gli atti di straordinaria amministrazione quelle transazioni che possono pregiudicare il minore provocando una rilevante diminuzione del suo patrimonio.

In concreto, si tratta delle: 

  • transazioni che riguardano danni che hanno provocato al minore postumi invalidanti destinati a protrarsi per tutta la sua vita; 
  • transazioni che hanno un’incidenza economica di rilevante gravità sul patrimonio del minore anche e soprattutto se la transazione prevede una importante rinuncia rispetto alle pretese inizialmente avanzate in sede giudiziale o stragiudiziale;
  • transazioni che richiedono una valutazione complessa e difficile del danno e del pregiudizio che potrebbe patire il minore a seguito delle lesioni subite.

L’incasso di capitali spettanti al minore

Ricordiamoci, poi, che l’art. 320 c.c. dispone anche che i capitali non possono essere riscossi senza l’autorizzazione del Giudice Tutelare, il quale ne determina anche l’impiego.  

A prescindere, quindi, dalla questione relativa alla qualificazione dell’atto transattivo quale atto di ordinaria o straordinaria amministrazione, bisogna tener conto del fatto che vi è una norma che stabilisce che i genitori siano legittimati ad incassare, in nome e per conto del minore, i capitali a quest’ultimo spettanti, solo se vi è un’autorizzazione del Giudice in questo senso.

La riscossione di capitali è quindi un atto di straordinaria amministrazione.

E se manca l’autorizzazione del Giudice?

In difetto del provvedimento autorizzativo da parte del Giudice, si pone un problema non già di validità dell’atto transattivo o del pagamento, quanto di definitività e certezza: il minore, infatti, per il tramite di un curatore speciale ovvero personalmente una volta raggiunta la maggiore età, potrebbe contestare i termini dell’accordo e addirittura di non aver ricevuto il pagamento.

Norme a tutela del minore che pongono però anche il danneggiante al riparo dal rischio di future contestazioni circa i termini dell’accordo e il pagamento.  

L’art. 320 c.c. è una norma certamente concepita a tutela del minore: il Giudice verifica che la transazione risponda agli interessi del minore e che le somme incassate siano destinate al ristoro dei danni da questo subiti. 

Ma il rispetto di questa norma tutela anche il danneggiante. 

Innanzitutto, se la transazione ha superato il vaglio del Giudice, non potrà essere poi impugnata dal minore essendovi già stato un giudizio di rispondenza tra il suo contenuto e l’interesse del minore, eventualmente anche con riferimento alla accettazione di una proposta sensibilmente inferiore rispetto alla domanda. Il danneggiante si vede così garantita la definitività e certezza dell’accordo.

Ancora.

Il danneggiante paga correttamente non già perché paga a mani dei genitori, ma se questi sono stati autorizzati a ricevere il pagamento in nome e per conto del figlio.

L’autorizzazione pone quindi il danneggiante al riparo dal rischio di dover effettuare un nuovo pagamento nel caso in cui i genitori non avessero utilizzato il denaro a vantaggio del minore. Il danneggiante si vede così garantito l’effetto liberatorio del pagamento.

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Contratto di fideiussione conforme alle norme bancarie uniformi: è davvero tutto nullo?

Abstract: Sta tenendo banco, in questo periodo, una questione giuridica che ha, per il vero, origini risalenti ma che ancora oggi rischia di avere molte e travolgenti conseguenze con riguardo alle fideiussioni rilasciate in favore degli istituti di credito. Capiamo perché.

Le norme bancarie uniformi ABI 2003 e il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005

Le norme bancarie uniformi (NBU) erano degli schemi contrattuali predisposti dall’ABI (associazione di imprese che raggruppa la quasi totalità delle banche operanti sul
territorio nazionale per la tutela degli interessi dei propri membri) e da questa divulgati e caldamente raccomandati ai propri aderenti con il fine di uniformare le condizioni praticate dalle banche per le operazioni ed i contratti conclusi con la propria clientela.
La Banca d’Italia ha ritenuto che una siffatta condotta violasse l’art. 2, comma 2, della legge n. 287/1990 in quanto integrante la fattispecie dell’intesa tra imprese avente per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Alla declaratoria di illiceità per violazione della normativa antitrust è conseguita quella di nullità di tutta una serie di norme inserite dalle Banche – su indicazione dell’ABI – nelle condizioni generali dei contratti fatti sottoscrivere ai propri clienti.

Le condizioni generali uniformi applicate ai contratti di fideiussione

L’illiceità ha colpito anche diverse clausole disciplinanti i contratti di fideiussione (condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia delle operazioni bancarie; condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia di apertura di credito per importo
determinato; condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia di operazioni varie comportanti rischi).
La problematica è stata trattata per lo più con riguardo alla censura dello schema contrattuale della fideiussione omnibus che consiste nella prestazione della garanzia da parte del fideiussore a beneficio di qualunque obbligazione, presente e futura, del debitore di una banca.
Il provvedimento della Banca d’Italia censura però anche altri schemi contrattuali attinenti il rilascio della garanzia fideiussoria.
La giurisprudenza, sul punto, ha avuto modo di fare due importanti precisazioni:
la Banca d’Italia, nel censurare l’intesa ABI, ha fatto riferimento alle condizioni generali di contratto da applicare alla fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie in generale;
nulla vieta che un giudice, reputando uno schema ABI illegittimo per violazione dell’art. 2 Legge 287/1990, possa disattenderlo anche se detto schema non riguardi un rapporto di fideiussione omnibus.

Illiceità e nullità delle singole clausole: il problema della estensione della nullità all’intero contratto

Posto che deve ritenersi pacifica la nullità di quelle clausole che, in quanto conformi alle norme bancarie, violano l’art. 2 della Legge 287/1990, vi è da chiedersi come impatti la loro nullità sulla validità ed efficacia delle altre clausole contenute nel contratto di fideiussione.

Due sono gli scenari che possono prospettarsi:
– la nullità di una o più clausole provoca la nullità dell’intero contratto. Il contratto, quindi, in assenza delle clausole dichiarate nulle, non può sopravvivere;
– la nullità rimane confinata alle sole clausole nulle cosicché, per il resto, il contatto resiste e continua a vincolare le parti.

L’art. 1419 c.c. dispone che la nullità parziale di un contratto o di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è stata colpita dalla nullità.
L’estensione della nullità all’intero contratto a fronte di una nullità parziale o di singole clausole ha carattere eccezionale perché deroga al principio generale della conservazione del contratto.
Per quanto, la nullità di una clausola si potrà estendere all’intero contratto solo in presenza di una eccezione della parte che vi abbia interesse (senza quella clausola non avrebbe stipulato il contratto) oppure in presenza della nullità di una clausola attinente ad un elemento essenziale del negozio o ad una pattuizione legata alle altre da un rapporto di interdipendenza e inscindibilità.
Venendo al caso delle fideiussioni rilasciate in favore delle Banche, la giurisprudenza ha già avuto modo di esprimersi in punto estensione o meno della nullità all’intero contratto di fideiussione nel caso in cui questo contenga clausole conformi a quelle ABI e quindi nulle per violazione dell’art. 2 Legge 287/1990.
Ad avviso della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 24044/2019) “avendo l’Autorità amministrativa circoscritto l’accertamento della illiceità per violazione dell’art. 2 della legge 287/1990 ad alcune specifiche clausole delle norme bancarie uniformi (NBU) trasfuse nelle dichiarazioni unilaterali predisposte dalla banca e rese in attuazione di intese illecite ai sensi dell’art. 2 della l. 10/10/1990, n. 287, ciò non esclude, né è incompatibile con il fatto che in concreto la nullità del contratto a valle debba valutarsi dal giudice alla stregua degli artt. 1418 e ss. cod. civ. e che possa trovare applicazione l’art. 1419 cod. civ. laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rinvenienti dalle intese illecite”.

La presenza, quindi, nel contratto di fideiussione di clausole nulle perché inserite dalla banca in violazione dell’art. 2 della legge 287/1990 non importa per ciò solo la nullità dell’intero contratto se le altre clausole non colpite dalla illiceità consentono ugualmente di soddisfare e dar corso alla regolamentazione del rapporto contrattuale sottoscritto dalle parti.

In difetto, quindi, di una intesa tra le parti circa l’estensione della nullità che ha colpito il contratto, sarà il giudice a stabilire se nel caso concreto il contratto dovrà intendersi travolto interamente dalla nullità (con l’effetto, quindi, di liberare i fideiussori da ogni obbligo verso la banca) oppure questa potrà intendersi contenuta alle sole clausole illecite per violazione dell’art. 2 legge 287/1990 (con l’effetto, quindi, di mantenere l’obbligazione di garanzia in capo ai fideiussori ad eccezione solo dei casi previsti dalle norme nulle).

Quali previsioni possono farsi?

Ogni decisione giurisprudenziale dovrà essere evidentemente considerata un caso a sé perché si basa su una valutazione strettamente legata alla fattispecie sottoposta all’esame del giudice che inevitabilmente tiene conto anche del comportamento posto in essere dalle parti.
Interessanti, al riguardo, sono le osservazioni svolte dal Tribunale di Matera con la sentenza del 06/07/2020 che ha deciso una causa originata da una opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento promossa dai fideiussori e dai debitori principali. Controparte era ovviamente un istituto di credito che aveva chiesto e ottenuto il decreto ingiuntivo contro il cliente/debitore principale ed i fideiussori di quest’ultimo.
L’impugnazione del provvedimento monitorio si fondava, tra l’altro, sulla violazione dell’art. 2 legge 287/1990 rinvenibile nel contratto di fideiussione.
Tre le clausole oggetto di censura: la clausola cosiddetta di sopravvivenza in forza della quale è prevista l’operatività della garanzia fideiussoria anche per il caso in cui l’istituto di credito fosse costretto a restituire delle somme a seguito dell’annullamento, revoca o inefficacia di pagamenti estintivi; la clausola cosiddetta di reviviscenza in forza della quale la garanzia fideiussoria opera anche nel caso in cui l’obbligazione principale fosse dichiarata invalida e la clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c.
Il giudice ha ritenuto che la nullità delle clausole di sopravvivenza e di reviviscenza dovesse nel caso di specie essere estesa all’intero contratto di fideiussione perché, in difetto di quelle clausole, l’istituto di credito mai avrebbe erogato il prestito al debitore principale.
La banca, invero, non si era limitata a chiedere una garanzia fideiussoria a tutela del proprio credito, ma aveva inteso rafforzare a tal punto la garanzia da determinare nel giudice la convinzione che quelle clausole avessero avuto funzione rilevante e fondamentale ai fini della concessione del prestito.
Conseguenza di ciò è che del debito è stato ritenuto responsabile il solo debitore principale con integrale liberazione dei fideiussori.
La banca, cioè, non solo non potrà reclamare alcun pagamento dai fideiussori nel caso in cui si verificasse una delle ipotesi previste dalle clausole di sopravvivenza e di reviviscenza, ma la nullità estesa all’intero contratto ha fatto venir meno ab origine l’obbligazione di garanzia.

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Can che abbaia non morde: ma è proprio così?

Abstract

La responsabilità che fa capo al proprietario di un animale prescinde dal grado di diligenza nella sua custodia e dalla adozione di tutte le possibili cautele: si tratta, infatti, di una responsabilità di tipo oggettivo da cui si può essere liberati solo al verificarsi di un evento giuridicamente qualificabile come caso fortuito.

Il fatto

Capita sovente per strada, nei parchi e più in generale in aree verdi frequentate da adulti e bambini, di vedere cani lasciati circolare liberamente dai loro padroni.
Il proprietario generalmente è tranquillo perché ritiene che nulla di male possa accadere essendo l’animale di piccole dimensioni oppure di indole mansueta. Talora il proprietario ha anche la convinzione che se una persona dovesse avvicinarsi al suo animale e infastidirlo o comunque tenere una condotta inadeguata (es. tirandogli la coda, cercando di strappargli un oggetto dalla bocca ecc.), quella persona dovrebbe ritenersi responsabile della conseguente reazione del cane e dei danni da questo eventualmente provocati.
Nulla di più sbagliato.

Cosa dispone la norma

L’art. 2052 c.c., sotto la rubrica “Danno cagionato da animali”, così recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.
Per legge, quindi, la responsabilità che fa capo al proprietario per i danni provocati dal suo animale è una responsabilità oggettiva: cioè, il proprietario è ritenuto responsabile a prescindere dalla sua eventuale malafede o colpa nella custodia.
La responsabilità trova quindi la sua ragione d’essere nel rapporto di fatto intercorrente tra il proprietario e il suo animale.
Ne consegue che per i danni cagionati dall’animale ad un terzo, il proprietario risponde in ogni caso ed in toto, anche se prova di aver usato la massima diligenza e adottato ogni cautela nella custodia dell’animale.
Una sola eccezione può liberare il proprietario: il caso fortuito.

L’esimente del caso fortuito

Il caso fortuito è un fatto naturale o di un terzo, oggettivamente imprevedibile ed inevitabile, che interviene nella causazione del danno togliendo così rilievo all’assenza o meno di colpa del custode.
Il proprietario dell’animale potrà quindi liberarsi dalla responsabilità per i danni cagionati dal suo animale solo fornendo la prova dell’intervento di un fattore:

  • esterno (fatto naturale o comportamento di un terzo);
  • imprevedibile;
  • inevitabile;
  • di assoluta eccezionalità;
  • idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta del proprietario e quella tenuta dall’animale che ha provocato l’evento lesivo;
  • che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno.
    Caso fortuito, quindi, non è un qualunque elemento esterno (es. tuono, avvicinamento di un estraneo) ma solo quell’elemento in cui siano ravvisabili tutte le caratteristiche sopra elencate.
    In assenza di un evento giuridicamente qualificabile come caso fortuito, se l’animale cagiona un danno il suo proprietario non potrà invocare la forza di natura o il fatto del terzo.

Caso fortuito e colpa del proprietario


Per invocare il caso fortuito occorre che non vi sia una originaria colpa del proprietario (per intenderci, l’animale era adeguatamente custodito e un evento naturale come un terremoto o un’inondazione o un evento umano come l’intervento di un ladro, hanno provocato l’apertura del ricovero ove l’animale si trovava adeguatamente custodito) oppure che l’evento naturale o umano sia tale da togliere rilevanza alla originaria colpa del proprietario in quanto ha fatto venir meno il rapporto di causa-effetto tra la condotta del proprietario e quella del cane e quindi dell’evento lesivo. L’evento lesivo, cioè, è da ricondursi esclusivamente al caso fortuito e non già alla colpa del proprietario che diventa, quindi, elemento irrilevante.

In conclusione


Concludendo, se il proprietario di un animale non ha adottato adeguate cautele ed anzi, lasciando ad esempio l’animale libero di circolare tra altre persone, ha reso non solo possibile ma addirittura ha agevolato il contatto tra il proprio animale ed i terzi, sarà responsabile dell’eventuale ferimento di terzi da parte dell’animale e non potrà liberarsi della responsabilità neppure contestando il fatto che il terzo si fosse avvicinato all’animale in modo maldestro o avesse infastidito l’animale.

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La pensione di reversibilità: quanto spetta all’ex coniuge del defunto e quanto al coniuge superstite

Abstract


La pensione di reversibilità garantisce sostegno economico al coniuge divorziato che percepisce l’assegno divorzile e/o al coniuge convivente. Nel caso in cui concorrano entrambi, il criterio che la fa da padrone per stabilire la misura della quota che spetta all’uno e all’altro è quello della durata del vincolo matrimoniale. La sola convivenza more uxorio ha invece poca incidenza.

Premessa

La fine di un matrimonio non necessariamente toglie agli ex coniugi il desiderio e l’entusiasmo di costituire, con un altro/a compagno/a, una nuova famiglia.
Tuttavia, vuoi per le vicissitudini e le lungaggini giudiziarie della separazione e del divorzio, vuoi perché si va più cauti prima di formalizzare un secondo vincolo matrimoniale, i nuovi rapporti molte volte si cristallizzano, anche per decenni, in una convivenza more uxorio.
I conviventi decidono magari di sposarsi quando sono ormai in là con gli anni così da potersi reciprocamente garantire, in caso di decesso di uno, che l’altro possa godere dei diritti e delle tutele soprattutto economiche spettanti al coniuge rimasto in vita.
Tra i diritti che il coniuge superstite può vantare vi è quello a percepire la pensione di reversibilità erogata dall’INPS.

La pensione di reversibilità: a chi spetta?

Nel caso in cui il defunto avesse in vita contratto due matrimoni, alla pensione di reversibilità ha diritto non solo il coniuge superstite, ma anche l’ex coniuge titolare dell’assegno di divorzio e che non abbia contratto nuovo matrimonio.

Come ripartire la pensione tra ex coniuge e coniuge superstite: i criteri.

Come va ripartita la pensione di reversibilità tra i due aventi diritto? In quale misura?
Il problema non è di poco conto perché ben può essere che i coniugi, nella regolamentazione dei loro rapporti economici, avessero fatto affidamento sul diritto del coniuge superstite a percepire la pensione di reversibilità in una certa misura. Trovarsi magari poi riconosciuta una quota del 10% sarebbe una amara sorpresa e potrebbe porre il coniuge convivente in una condizione di grave difficoltà economica.
La legge non stabilisce l’entità della quota di pensione spettante al coniuge superstite e all’ex coniuge, per cui questa andrà di volta in volta quantificata da un Giudice.
Ma sulla scorta di quali elementi il Giudice quantifica la misura della pensione spettante all’ex coniuge e quella spettante al coniuge superstite?
Saperlo e soprattutto avere la consapevolezza dell’incidenza di questi elementi nella quantificazione è importante perché consentirebbe alle parti di fare delle previsioni e mettere in atto le opportune reciproche tutele.
Partiamo da questa considerazione: la finalità della pensione di reversibilità è quella di dare continuità alla funzione di sostegno economico che il coniuge defunto assolveva a favore dell’ex coniuge attraverso il pagamento dell’assegno di divorzio e a favore del coniuge convivente attraverso la condivisione dei propri beni economici.
La ripartizione della pensione di reversibilità non ha dunque la finalità di riequilibrare le posizioni economiche di ex coniuge e coniuge convivente laddove vi sia disparità.
Vediamo ora quali elementi valuta il Giudice nella definizione delle quote.
L’elemento principale, quello che in assoluto ha la maggiore incidenza e che sostanzialmente stabilisce quale parte ha diritto a percepire la quota più cospicua di pensione, è rappresentato dalla durata delle due convivenze matrimoniali.
E qui chiariamo subito un aspetto: alla convivenza matrimoniale non può essere equiparata quella more uxorio.
Questo perché convivenza coniugale e convivenza more uxorio sono due concetti costituzionalmente distinti: vero che per alcuni aspetti la disciplina dell’una e dell’altra presentano analogie, tuttavia ciò non comporta, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, il necessario riconoscimento in favore del convivente superstite del trattamento pensionistico di reversibilità, non rientrando quest’ultimo tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.
Questo primo criterio si basa quindi sul matematico confronto della durata tra le due convivenze matrimoniali.
Pur essendo tale elemento il più importante e preponderante, si cerca però di mitigarlo attraverso l’applicazione di altri elementi che il Giudice deve prendere in considerazione, così da, se non evitare, almeno limitare il verificarsi di una decisione evidentemente iniqua quale potrebbe essere quella di riconoscere al coniuge superstite una quota insufficiente a coprire le basilari esigenze di vita.
Gli elementi correttivi di cui pertanto il Giudice dovrà tenere conto sono:

  • l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge;
  • le condizioni economiche complessive di ex coniuge e del coniuge superstite;
  • la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali;
  • il contesto in cui si sono svolte le due convivenze (quindi, ad esempio l’assistenza prestata dal coniuge superstite per la cura del coniuge poi defunto);
  • l’età del coniuge superstite e dell’ex coniuge;
  • le disposizioni operate dal coniuge defunto in favore del coniuge superstite.

Il suggerimento

In concreto, tuttavia, gli elementi correttivi hanno un’incidenza modesta: nel caso deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11520/2020, ad esempio, in grado di appello l’applicazione dei criteri correttivi aveva consentito di passare dalla quota del 10% riconosciuta al coniuge superstite in primo grado ad una del 20%.
E’ chiaro, quindi, che in tutti quei casi in cui vi sia una forte disparità di durata tra il primo ed il secondo vincolo matrimoniale, la pensione di reversibilità sarà di fatto destinata ad essere ripartita in due quote di cui una sensibilmente maggiore rispetto all’altra.
Che fare dunque per tutelare il coniuge superstite se la quota di pensione di reversibilità cui questo dovrebbe aver diritto fosse quella più modesta?
Una soluzione potrebbe essere che il coniuge, prima di morire, disponga in favore del coniuge convivente dei suoi beni o di parte di essi così da garantirgli, non potendo fare affidamento sulla pensione i reversibilità, di disporre delle risorse necessarie e sufficienti per far fronte ai suoi bisogni.