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Imu: nuovo orientamento per godere dell’esenzione. Occhio ai requisiti

Articolo scritto in collaborazione con il Dott. Andrea Eduardo Ratti

Introduzione

Con ordinanza n. 20130 in data 24/09/2020, la Cassazione Civile, Sezione VI^, ha stabilito che l’imposta municipale propria (IMU) non si applica all’abitazione principale ed alle sue pertinenze [solo] quando in essa il contribuente possessore vi dimori abitualmente e vi risieda anagraficamente insieme al suo nucleo familiare.

Dello stesso tenore, le più recenti sentenze della Sezione Tributaria in data 3 e 4 novembre 2020 e l’ordinanza n. 28534 del 15/12 scorso.

I citati provvedimento della S.C. applicano rigorosamente il dettato della norma primaria contenuta nell’art. 12, co. 2°, D.L. n. 201/2011 (vecchia IMU) in linea con il costante orientamento secondo il quale le norme agevolative devono essere interpretate restrittivamente.

Peraltro, anche la nuova IMU, disciplinata dall’art. 1, comma 741 della legge di bilancio 2019, ricalca il dettato della vecchia pur con le precisazioni che in seguito si vedranno.

Fin qua, quindi, niente di nuovo. Infatti, altre sentenze, prima di queste, avevano sostanzialmente affermato lo stesso principio (cfr., ex pluribus, Cass. 4166/2020, Cass. n. 4170/2020).

La novità dirompente della pronuncia di settembre sta nell’escludere l’agevolazione tutte le volte in cui non sono soddisfatti contemporaneamente per ogni singola abitazione presa in considerazione i presupposti richiesti dalla norma con il risultato che, laddove – come nel caso deciso dalla Corte – due coniugi abbiano residenze diverse, l’esenzione non spetti né all’uno né all’altro.

E’ stata sostanzialmente introdotta la scriminante dello “spacchettamento della famiglia”: se residenza e dimora dell’intero nucleo non coincidono l’esenzione non si applica per nessuna abitazione della famiglia.

Le conseguenze di un tale arresto si preannunciano severe.

Infatti, non sarà colpito e punito solo il contribuente che abbia voluto eludere la norma sull’imposizione fiscale dissociando opportunamente residenza e dimora, ma anche quello a favore del quale ricorrerebbero circostanze tali da giustificare una deroga al requisito del nucleo familiare almeno per una delle abitazioni.  

Una pronuncia come quella in esame, stesa senza operare i necessari distinguo, fa sorgere più di una perplessità.

Per questo, è prevedibile una lievitazione del contenzioso anche in considerazione dell’entità della ripresa fiscale per i cinque anni trascorsi che inevitabilmente seguirà all’applicazione di questo orientamento.

La norma vigente

La nuova IMU regolata dall’art. 1, comma 741 della legge di bilancio 2019, così dispone:

a) per fabbricato si intende l’unità immobiliare iscritta o da iscriversi nel catasto edilizio urbano con attribuzione di rendita catastale, considerandosi parte integrante del fabbricato l’area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza esclusivamente ai fini urbanistici, purché accatastata unitariamente;

 b) per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o da iscriversi nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile.

La disciplina della nuova Imu, quindi, prevede [solo] il caso in cui il nucleo familiare sia residente in immobili diversi nello stesso comune, esonerando dall’imposta solo una delle due abitazioni. Nulla però dice in ordine alle doppie case situate in comuni diversi (caso tipico quello dell’abitazione di villeggiatura in comune turistico ove il trasferimento della residenza di un componente del nucleo familiare – generalmente marito o moglie – ha finalità potenzialmente elusiva).

IMU – I requisiti nello specifico

L’abitazione principale è quella nella quale il contribuente dimora stabilmente e risiede anagraficamente insieme al suo nucleo familiare.

ABITAZIONE PRINCIPALE – la norma primaria chiarisce che trattasi dell’immobile non di lusso (sono quindi escluse le categorie catastali A/1, A/8 e A/9), iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio come unica unità immobiliare. Comprende le pertinenze.

DIMORA STABILE – è il luogo nel quale – di fatto – una persona abita e trascorre in maniera continuativa la propria vita personale. Non vi rientra il luogo di villeggiatura ma vi rientra l’abitazione dove si vive in forza di un contratto di locazione (si pensi allo studente universitario fuori sede).

RESIDENZA ANAGRAFICA – il codice civile all’art. 43 la definisce come il luogo dove si ha la dimora abituale (non stabile!) e, aggiunge la Cassazione, volontaria. La residenza è dichiarata all’anagrafe ed è certificabile.

Benchè vi sia l’obbligo di fissarla nel luogo nel quale si vive abitualmente pena la correzione d’ufficio delle iscrizioni anagrafiche esistenti e l’applicazione di sanzioni pecuniarie, può accadere, che la residenza anagrafica non coincida con la dimora abituale come è il caso del lavoratore che è costretto a spostarsi per motivi di trasferta. In teoria, tutte le volte che si cambia dimora abituale, si dovrebbe denunciare il cambio di residenza all’anagrafe. In pratica, assai spesso non lo si fa con il risultato che residenza e dimora abituale non coincidono.

A volte, la scelta di trasferire la residenza presso abitazione diversa da quella del nucleo familiare è [stata] proprio funzionale al godimento da parte di ciascuno dei coniugi della esenzione per abitazione principale sulla propria unità.  

NUCLEO FAMILIARE – Non esiste una definizione di questa locuzione ma si può affermare che il nucleo familiare è quello con cui il contribuente vive nello stesso alloggio. Designa anche la famiglia tradizionale e la persona fisica che (da sola) vive in una casa. Non sempre, coincide con la famiglia anagrafica che è quella che risulta dal certificato di stato di famiglia anagrafico.

Mentre nello stato di famiglia i componenti abitano tutti sotto lo stesso tetto, del nucleo famigliare fanno parte anche genitori e figli che abitano in città diverse con i figli che dipendono ancora dai genitori. Quindi: nel nucleo familiare rientra la famiglia anagrafica e i soggetti fiscalmente a carico anche se non conviventi.

Qualche esempio:

  1. i CONIUGI fanno sempre parte dello stesso nucleo familiare anche quando non risultano nello stesso stato di famiglia perché hanno residenze diverse;
  2. i CONIUGI SEPARATI DI FATTO fanno sempre parte dello stesso nucleo familiare;
  3. i FIGLI MINORI che convivono con uno dei genitori fanno parte del nucleo familiare del genitore con cui convivono anche se a carico del genitore con cui non convivono;
  4. i FIGLI MAGGIORENNI NON CONVIVENTI MA A CARICO DEI GENITORI, fanno parte del nucleo familiare dei genitori;
  5. altre PERSONE presenti nello stato di famiglia anagrafico (es.: genitore, suocero, …);
  6. le PERSONE A CARICO anche se non presenti nello stato di famiglia del dichiarante.

Ne segue che non fanno parte del nucleo familiare:

I.- il CONIUGE con residenza diversa dal quale il dichiarante sia legalmente separato o nei confronti del quale abbia proposto domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;

II.- il CONIUGE che abbia abbandonato il tetto coniugale quando sia stato accertato in sede giurisdizionale o amministrativa;

III.- il CONIUGE nei confronti del quale è stata proposta domanda di nullità del matrimonio;

IV.- i MINORI AFFIDATI A TERZI con provvedimento del Giudice;

V.- due CONVIVENTI ancorchè a carico dei genitori.

Nucleo familiare e reddito di cittadinanza

Vediamo come la locuzione nucleo familiare è definita dall’art. 2, co. 5 del Dl 4/2019 convertito con modificazioni nella L. 26/2019.

Ai fini del reddito di cittadinanza, i coniugi permangono nel medesimo nucleo anche a seguito di separazione o divorzio, qualora continuino a risiedere nella stessa abitazione; se la separazione o il divorzio sono avvenuti successivamente alla data del 1° settembre 2018, il cambio di residenza deve essere certificato da apposito verbale della polizia locale.

I componenti già facenti parte di un nucleo familiare come definito ai fini dell’ISEE, o del medesimo nucleo come definito ai fini anagrafici, continuano a farne parte ai fini dell’ISEE anche a seguito di variazioni anagrafiche, qualora continuino a risiedere nella medesima abitazione.

Il figlio maggiorenne non convivente con i genitori fa parte del nucleo familiare dei genitori esclusivamente quando è di età inferiore a 26 anni, è nella condizione di essere a loro carico a fini IRPEF, non è coniugato e non ha figli.

Tale definizione è applicata per una agevolazione reddituale e quindi non si può escludere sia applicabile anche per l’agevolazione ai fini IMU e, in tal senso, può essere di aiuto nell’interpretare la portata dell’espressione nucleo familiare.

L’incertezza della composizione del nucleo familiare

E’ evidente, a tutto voler concedere, come quello di nucleo familiare sia un concetto sfuggente ed insidioso.

Infatti, se applico i criteri di appartenenza o meno al nucleo famigliare come sopra delineati, ne possono venire fuori situazioni paradossali per cui a casi del tutto assimilabili a quelli per cui la Cassazione ha esplicitamente escluso il beneficio, lo stesso risulterebbe pacificamente ammesso.

Si pensi alla coppia non coniugata che pur dimori stabilmente sotto lo stesso tetto. Se i due mantenessero residenze anagrafiche diverse e ciascuno avesse un proprio stato di famiglia, nulla impedirebbe loro di godere (entrambi) dell’esenzione dall’IMU per la rispettiva abitazione.

Per converso, se una coppia di coniugi ha un figlio maggiorenne a carico ma non convivente con loro perché, per esempio, trasferitosi altrove per motivi di studio, la circostanza di non avere dimora abituale presso l’abitazione principale del contribuente escluderebbe il diritto all’esenzione. Si osserva che, teoricamente, il nucleo familiare è spacchettato per la dimora diversa del figlio, ma è evidente che nel caso di specie non sarebbe ravvisabile elusione alcuna.

Conclusioni

Il timore è che l’applicazione rigorosa e inflessibile di una norma che, per come scritta, di rigoroso ha poco, possa portare a distorsioni ingiustificate. Sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che chiarisca una volta per tutte la portata dei requisiti indispensabili per godere dell’esenzione.

Avv. Angela Poggi

Dott. Andrea Ratti

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La pena pecuniaria in caso di violazioni al regolamento condominiale

Abstract

La riforma del condominio ha notevolmente innalzato la misura delle sanzioni pecuniarie che possono essere comminate dall’assemblea al condomino che contravviene ad una disposizione del regolamento condominiale. Diventa perciò assai importante stabilire come stendere il regolamento affinché la pena possa dissuadere dalla sua violazione.


La sentenza del Tribunale di Trani n. 942/2020 pronunciata in data 15/06/2020 offre l’occasione per fare il punto sulle pene private in materia di condominio dopo la riforma introdotta dalla L. 220/2012.
Questo contributo non mira tanto a ripercorrere il casus decisus quanto a trarre da esso e dalla giurisprudenza che sul tema ha preceduto la decisione in esame, dei principi che guidino l’estensore del regolamento condominiale affinchè esso metta nelle mani dell’amministratore uno strumento davvero utile ed efficace.
Altro tema interessante, infatti, è se la pervicace violazione delle norme condominiali tipica di alcune nostre realtà e sinonimo di noncuranza diffusa verso i vicini, possano o meno essere evitati o, quanto meno, contenuti sotto la minaccia di una sanzione pecuniaria e se vessare il portafoglio del condomino impenitente abbia efficacia dissuasiva superiore al rischio che il conflitto trasli dalla relazione alla procedura applicativa della sanzione.
Certamente, si può dire senza timore di essere smentiti, stendere il regolamento con cognizione di causa può aiutare a perseguire l’obiettivo del contenimento del contenzioso condominiale.

La norma

L’art. 70 disp. att. al cc stabilisce che “Per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad € 200 e, in caso di recidiva, fino ad € 800. La somma è devoluta al fondo di cui l’amministratore dispone per le spese ordinarie. L’irrogazione della sanzione è deliberata dall’assemblea con le maggioranze di cui al secondo comma dell’articolo 1136 del codice [ndr: maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio: 500 millesimi].”
Orbene.
Dal dato testuale discende, immediatamente ed in sintesi, che il regolamento di condominio che detta la regola cui i condomini devono uniformarsi, può prevedere una sanzione pecuniaria in caso di sua infrazione in misura non superiore all’importo massimo indicato nell’articolo in parola. Compito dell’assemblea è (solo) deliberarne l’irrogazione con le maggioranze specificate nella norma cui rimanda.
Sulla natura di questa sanzione si può anticipare che essa rientra nel novero delle pene private che sono sanzioni punitive aventi origine da un atto negoziale, inflitte da un soggetto privato dotato di potestà punitiva e che trovano applicazione in relazione ad una vicenda privata.
Essa ha natura eccezionale e vedremo in seguito quali sono le conseguenze che ciò comporta.
Ciò premesso, vediamo a quali condizioni può essere legittimamente inflitta la pena privata condominiale.

-I-

Regolamento condominiale

L’art. 70 delle disp. att. al cc parla di regolamento di condominio senza precisare quale ne debba essere la natura.
Dalla espressione letterale s’intende che la sanzione pecuniaria in parola può essere prevista come conseguenza della violazione tanto di una norma contrattuale quanto regolamentare con la conseguenza che la sanzione può essere stabilita non solo all’unanimità ma anche a maggioranza.
Tale riflessione sarebbe, del resto, in linea con la circostanza che l’art. 70 non è compreso tra le norme definite inderogabili dall’art. 72 disp. att. cc con il che la sanzione pecuniaria prevista da una norma regolamentare potrà essere modificata e perfino eliminata da una delibera a maggioranza.
Il principio è chiaramente enunciato da Cass. 9877/2012 di cui di seguito si riporta un importante passo: “Le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare; ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 cc comma 2
In sintesi: l’assemblea ha il potere di prevedere sanzioni per le infrazioni al regolamento di condominio e decidere le questioni connesse con la maggioranza e non con l’unanimità, salvo che si determini una limitazione di diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni o si attribuisca ad alcuni condomini maggiori diritti rispetto ad altri.
Superato questo scoglio, vediamo quali sono i limiti dell’assemblea con riguardo al contenuto della pena conseguente l’infrazione della norma regolamentare.

-II-

Obbligatorietà del regolamento limitata ai condomini

Scopo del regolamento è quello di disciplinare la gestione delle parti comuni condominiali e di dettare i criteri per il riparto tra i condomini delle relative spese.
E’ il prodotto della autonomia contrattuale dei partecipanti al condominio e quindi può vincolare solo i condomini.
Ne consegue che la sanzione che, come anzidetto, è pena privata di applicazione restrittiva e quindi limitata a chi sia tenuto all’osservanza del regolamento, può essere inflitta solo al condomino.
Il conduttore avente causa da un condomino, gode dei beni comuni in forza di un rapporto obbligatorio ma non fa parte dell’organizzazione condominiale. Sarà, perciò il proprietario a dover rispondere verso gli altri condomini della condotta del suo inquilino.
Invero, il proprietario non solo può rendere il proprio inquilino edotto delle norme del regolamento dello stabile, ma può anche verificare in ogni momento se lo stesso le rispetta e può contestargli l’inadempimento contrattuale e, se grave, intimargli la risoluzione del contratto. Non ultimo, può rivalersi sull’inquilino delle sanzioni che gli fossero eventualmente inflitte dall’assemblea per violazioni di disposizioni regolamentari a lui imputabili.
A fortiori se l’infrazione sia commessa dal convivente, dal comodatario ovvero dall’ospite.
Al contrario, invece, ove si parli di nudo proprietario ed usufruttuario o altro titolare di diritto reale minore. In questo caso, a rispondere della violazione è chi beneficia dei frutti dell’immobile e ne sopporta le spese.

III –

Predeterminazione della sanzione in relazione alla violazione di determinate disposizioni del regolamento

Il regolamento deve specificare quali condotte sono vietate.
Stante il carattere eccezionale della pena privata, non è consentito applicare analogicamente le norme sanzionatorie a fattispecie simili o comunque riconducibili a quelle espressamente previste e disciplinate.
Inoltre, il regolamento deve espressamente prevedere per il caso di violazione di questa o di quella disposizione la sanzione pecuniaria e determinarne la misura.
L’assemblea non ha al riguardo alcuna discrezionalità dovendosi limitare la delibera ad irrogare o meno la sanzione in relazione alla infrazione contestata e laddove questa si reputi rientrare tra le condotte vietate dal regolamento.
Il principio cui deve ispirarsi è quello secondo cui non può esservi un reato e quindi una pena se non in forza di una legge preesistente che proibisca e punisca quel comportamento con quella pena (principio di legalità penale).
Ne consegue che una delibera assembleare che irroghi una sanzione pecuniaria a fronte di un comportamento non espressamente vietato dal regolamento ovvero a fronte di un comportamento espressamente vietato ma alla cui infrazione non è ricollegata la sanzione pecuniaria, è radicalmente nulla.


-IV-

Pecuniarietà della sanzione, misura e recidiva

Poiché trattasi di pena privata e poiché al privato è dato il diritto di autotutela solo in casi eccezionali, deve escludersi il diritto di infliggere al condomino pene diverse da quella pecuniaria, siccome espressamente prevista dalla norma delle disposizioni di attuazione che qui si commenta.
Ne consegue non solo che la disposizione del regolamento che eventualmente preveda una sanzione diversa da quella pecuniaria è nulla ma anche che l’irrogazione di essa da parte dell’assemblea può integrare [in capo all’amministratore, senz’altro, ma forse anche in capo ai condomini che votano a favore della delibera] gli estremi del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Quindi, solo pena pecuniaria che può arrivare (inderogabilmente) fino ad un massimo di € 200 ovvero di € 800 per il (solo) caso di recidiva.
Non specificando di che tipo di recidiva deve trattarsi, si può ritenere valida la disposizione del regolamento che preveda l’applicazione del massimo sia in caso di recidiva specifica (più violazioni della stessa disposizione) sia in caso di recidiva generica (più violazioni di disposizioni diverse). Così, sarà sanzionata da nullità quella delibera che preveda la moltiplicazione della sanzione prevista per il numero delle violazioni laddove il risultato ottenuto superi l’importo massimo di € 800.
E’ auspicabile che il regolamento precisi analiticamente cosa l’assemblea possa deliberare nelle diverse ipotesi di recidiva sopra previste.
Il quesito è se l’assemblea possa con propria delibera modificare la misura della sanzione prevista nel regolamento. Nei limiti di quanto già precisato al punto -I- e per come meglio si dirà al punto -V-, ritengo di dover rispondere affermativamente purchè, però, non si eccedano i limiti massimi previsti dalla norma che si commenta da ritenersi, questi sì, inderogabili.
Ove, infatti, l’assemblea deliberasse l’irrogazione di una sanzione superiore alla misura massima consentita, la delibera sarebbe nulla e non potrà ritenersi automaticamente sostituita con altra che rispetti il limite.
Per chiudere sul punto sembra indispensabile chiedersi se le sanzioni pecuniarie contenute nei regolamenti condominiali pre-riforma debbano ritenersi automaticamente aggiornati quanto alla misura ai limiti di cui al citato art. 70. La tesi prevalente è in senso affermativo ove la norma del regolamento richiami espressamente e rimandi all’art. 70. Diversamente, l’amministratore farebbe bene ad attivare l’assemblea perché, a maggioranza o all’unanimità a seconda dei casi, aggiorni il dettato regolamentare.


-V-

Derogabilità dei limiti di cui all’art. 70 disp. att. cc

Per tutto quanto anzidetto, si reputa, diversamente da quanto da altri sostenuto, che i limiti alla potestà sanzionatoria del regolamento qui evidenziati (natura pecuniaria delle sanzioni e limiti nella sua misura massima) non siano superabili nemmeno con il consenso unanime dell’assemblea. E’ pur vero che si giocherebbe sul principio della libera contrattazione ex art. 1322 cc ma è anche vero che l’ordinamento non può permettere al privato di abusare del potere di infliggere sanzioni (cfr. Cass. Civ., Sez. Seconda, n. 820/2014)
Quanto, invece, alla disposizione che prevede che i proventi delle sanzioni siano imputati al pagamento delle spese ordinarie, il dubbio che l’assemblea possa, all’unanimità, stabilire l’imputazione alla realizzazione di lavori straordinari, appare francamente legittimo.
Per sviscerare meglio l’argomento potrebbe essere utile chiedersi quale sia stata la ratio del legislatore nel prevedere questa limitazione. La risposta potrebbe essere che il legislatore così disponendo abbia voluto assicurarsi che tutti i condomini beneficiassero dei proventi delle sanzioni pecuniarie in proporzione alla partecipazione di ciascuno alla spesa collettiva. Lo stesso potrebbe non accadere nel caso in cui si desse corso alla realizzazione di opere di manutenzione straordinaria riguardanti solo una parte dei condomini oppure ripartiti tra loro secondo criteri non corrispondenti alla loro partecipazione millesimale all’unità.
Quindi: se l’assemblea dovesse disporre un’imputazione diversa dei proventi pur sempre garantendo a tutti il beneficio che ne deriva, non vedo particolari ragioni per vietarlo limitando l’autonomia contrattuale dei condomini.


-VI-

Il ruolo dell’assemblea e dell’amministratore

Si è detto che all’assemblea spetta irrogare la sanzione con le maggioranze di cui all’art. 1136 cc.
La delibera con cui la sanzione viene irrogata presuppone, però, che vi sia stata una contestazione (in forma di diffida) della infrazione al condomino responsabile, che della infrazione e della contestazione vi sia prova documentale, che essa sia riconducibile alla violazione di una disposizione del regolamento e che questa disposizione ne determini o ne consenta di determinare la misura ed il termine ultimo per il pagamento.
All’amministratore spetta l’ingrato compito di mettere l’assemblea nella condizione di deliberare e quindi di istruire, molto scrupolosamente, un vero e proprio procedimento privato.
Non solo.
Dovrà convocare l’assemblea con opportuno ordine del giorno sul punto.
Una volta deliberata la sanzione, l’amministratore cui compete riscuotere il dovuto, dovrà inserire idonea voce nel rendiconto consuntivo avendo cura di addebitarla al condomino sanzionato e di accreditarla a tutti gli altri condomini in proporzione alla loro partecipazione millesimale al condominio.
Meglio sarebbe quindi che il regolamento non lasci nulla al caso e disciplini nei tempi e nei modi anche la procedura di contestazione fino alla delibera di irrogazione della sanzione, che stabilisca come documentare la prova della infrazione e della responsabilità nonchè gli effetti della delibera assembleare di irrogazione anche sul rendiconto.
Al condomino, invero, è riconosciuto il diritto di impugnare la delibera entro trenta giorni dalla sua approvazione ovvero dalla conoscenza che questi ne abbia avuta.
Il mancato pagamento nel termine della sanzione irrogata, consentirà – d’altra parte – all’amministratore di adire l’Autorità Giudiziaria per procurarsi un titolo contro il condomino inadempiente.
Ove vi fosse un credito certo, liquido, esigibile e fondato su prova scritta, l’amministratore ben potrebbe promuovere l’azione monitoria ed ottenere la condanna del debitore al pagamento. Il decreto ingiuntivo emesso sulla scorta di una voce a debito inserita in un rendiconto ed un piano di riparto approvati potrà poi beneficiare della clausola di provvisoria esecutività.

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Locazioni ad uso diverso e buona fede del locatore

Abstract

Riflessioni sul comportamento conforme alla buona fede contrattuale e sul divieto di abuso del diritto del creditore in materia di locazione ad uso diverso. Eccezioni e rimedi. 

Introduzione

La pandemia e le norme della decretazione d’urgenza che hanno imposto il lockdown ed il distanziamento sociale hanno minato alla base l’equilibrio sinallagmatico di molti contratti di locazione ad uso diverso.

I conduttori si sono trovati nella impossibilità di accedere agli immobili (si pensi ad esempio ai negozi nei centri commerciali) e di esercitare la loro attività (si pensi ad esempio alle palestre). Il cash flow si è esaurito ed è sopraggiunta la incapacità di far fronte alle ordinarie obbligazioni come quella, per esempio, del pagamento del canone.

Si è letto di tutto sui diritti e gli obblighi dei conduttori, sull’impossibilità sopravvenuta di adempiere e sulla eccessiva onerosità sopravvenuta. 

Assai minore è l’attenzione dedicata alla posizione del locatore. 

Di seguito qualche considerazione al riguardo. 

Obbigo generale di comportarsi secondo buona fede

Il quesito è il seguente: quale è il comportamento che deve tenere il locatore e come può muoversi perché nulla gli possa essere contestato?

Per dare una risposta dobbiamo partire da una rivisitazione del concetto generale di buona fede oggettiva che impone alle parti di comportarsi in modo leale e corretto durante tutta l’esecuzione del contratto.

Più precisamente.

Quanto alla sua origine, questo obbligo si modella sul vincolo di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione che impone a tutte le parti di agire nella reciproca tutela degli interessi riconducibili al contratto al di là di quelli che sono i diritti a ciascuna spettanti. Come a dire che questi ultimi dovranno profilarsi come recessivi rispetto ai primi se, per la ricorrenza di determinate circostanze, il loro esercizio è frutto di capriccio, prepotenza o sopruso.

In particolare, la clausola di buona fede ha assunto nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale tanto la funzione di criterio di valutazione delle condotte quanto quella di strumento di integrazione e ricognizione degli obblighi derivanti dal contratto. 

In questa duplice prospettiva, in che cosa consiste concretamente il comportamento leale e corretto del locatore ai tempi del coronavirus?

Ignorare ostinatamente lo sbilanciamento sopravvenuto tra le prestazioni, resogli noto dal conduttore insieme ad una richiesta di rinegoziazione delle condizioni economiche contrattuali, e pretendere l’intero corrispettivo della locazione senza disporre dell’evidenza della pretestuosità delle difficoltà ostentate dall’altra parte, integra senz’altro un comportamento contrario alla lealtà ed al vincolo di solidarietà di rango costituzionale.

Parimenti, appare contrario a buona fede il comportamento del locatore che rifiuti l’esecuzione di opere indifferibili di manutenzione straordinaria sull’immobile locato opponendo la sospensione del pagamento dei canoni benchè causata dalla chiusura dell’attività nel rispetto della decretazione d’urgenza.  

L’abuso del diritto del creditore

Figura giuridica per più versi intrecciata a quella della buona fede è quella dell’abuso del diritto del creditore. 

Sono presupposti per la sua configurabilità:

  1. che una delle parti sia titolare di un diritto soggettivo;
  2. che possa essere in concreto esercitato con diverse modalità;
  3. che, in fatto, sia esercitato con modalità tale da procurare una sproporzione ingiustificata tra il beneficio che ne ricava il titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte.

E’ il caso del locatore che agisce in giudizio notificando al conduttore lo sfratto per la morosità maturata in periodo di lockdown ovvero che azioni la fideiussione a prima richiesta per recuperare dal garante del conduttore le morosità. 

Qui il proprietario esercita indiscutibilmente il proprio diritto che è quello di ricevere il canone pattuito nel contratto ma lo fa nella consapevolezza e quindi con la volontà di ledere il debitore. 

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. 

Di tutti, minimo comune denominatore è l’arbitrarietà della condotta del creditore astrattamente corrispondente ad una posizione di diritto ma che, travalicandone i limiti, va a ledere la sfera giuridica altrui pretendendo irragionevolmente dal debitore un sacrificio non più affrontabile o non più affrontabile nella misura inizialmente pattuita.

 A queste condizioni, l’interesse sotteso all’esercizio del diritto non è meritevole di tutela.

I rimedi

Laddove la legge non preveda un rimedio tipico all’abuso di un determinato diritto, come nel caso che ci occupa, supplisce l’exceptio doli generalis.

La locuzione latina indica l’eccezione finalizzata a paralizzare l’istanza di tutela di un diritto azionata abusivamente.

La Cassazione Civile del 17/03/2007 n. 5273 chiarisce che l’exceptio doli generalis “[…] costituisce un rimedio di carattere generale, utilizzabile anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate, il quale è diretto a precludere l’esercizio fraudolento o [ndr: anche solo] sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento, paralizzando l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte e giustificando il rigetto della domanda giudiziale fondata sul medesimo, ogniqualvolta l’attore abbia sottaciuto circostanze sopravvenute al contratto ed aventi forza modificativa o estintiva del diritto, ovvero abbia avanzato richieste di pagamento “prima facie” abusive o fraudolente, […].”

L’eccezione in parola ha finalità difensiva poiché mira ad impedire l’accoglimento della domanda fondata sul diritto abusato. E’, nella sostanza, una tutela reale. 

Questo elemento ed altresì la circostanza che in giurisprudenza si sia affermata la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione da parte del Giudice, rendono bene la gravità attribuita a questa condotta. 

Ai fini della prova, è sufficiente la mera conoscenza o conoscibilità della contrarietà alla correttezza del comportamento assunto.

Tutto utile, sì, ma non sufficiente.

Ecco allora che il già spiegato parallelismo tra il divieto dell’abuso del diritto e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, aggiunge alla tutela reale quella obbligatoria fondata sul risarcimento del danno da responsabilità contrattuale. 

Non è da dimenticare, infine, la possibilità di ricorrere all’art. 88 cpc (dovere di lealtà e probità delle parti e dei loro difensori) e all’art. 92 cpc (condanna alle spese per violazione degli obblighi di cui all’art. 88 cpc) che consentirebbe al Giudice investito della domanda di accogliere le conclusioni del creditore ma di condannarlo alle spese che sarebbero dovute rimanere a carico del soccombente.

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Procura e amministrazione di sostegno: possono coesistere?

Il caso

Caio è intestatario di un patrimonio, non necessariamente cospicuo, che però va gestito: es. l’appartamento dato in affitto; gli investimenti in banca.

Caio non è più giovanissimo oppure soffre di problemi fisici che gli rendono difficoltosi gli spostamenti o lo costringono ad assentarsi da casa per un tempo più o meno lungo per curarsi. 

Caio è ancora perfettamente in grado di intendere e di volere ma vuoi per l’età vuoi per ragioni di salute, non può o non se la sente di  continuare ad occuparsi personalmente dei propri beni.

O P P U R E

Caio intende semplicemente cautelarsi ed assicurarsi che vi sia continuità nella gestione del suo patrimonio e che, pertanto, questo non rimanga incustodito se improvvisamente non fosse più in grado di amministrarlo personalmente. 

Caio rilascerà quindi una PROCURA GENERALE: conferirà, cioè, ad una persona di fiducia l’incarico ed i poteri di gestire il suo patrimonio in suo nome e per suo conto.



Ma se già esiste una procura generale, e vi è dunque un soggetto investito di tutti i poteri per gestire il patrimonio di Caio, ha senso porsi il problema della nomina di un amministratore di sostegno e quindi della coesistenza di due soggetti che possono agire in nome e per conto di Caio e ciò in forza di un titolo diverso? 

Sì, perché il procuratore, ancorché munito di procura generale e ancorché gli siano stati conferiti i poteri più ampi possibili, non potrà mai spendere la procura in ambito sanitario.

Così se Caio dovesse essere considerato dai medici incapace di esprimere il proprio valido consenso per sottoporsi a cure o interventi sanitari, si renderà necessario nominare un amministratore di sostegno.L’amministratore di sostegno dovrà così esprimere in nome e per conto di Caio il consenso in ambito sanitario ma sarà altresì investito del compito di gestire il patrimonio di Caio. 

La nomina di un amministratore di sostegno può essere provocata da un parente di Caio il quale, facendo leva sulla sopraggiunta incapacità o sulla ridotta capacità di intendere e di volere di Caio, promuova un procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno proponendo in tale ruolo se stesso o persona di propria fiducia (anziché persona di fiducia di Caio).

A prescindere dalle ragioni che hanno portato alla nomina di un amministratore di sostegno, la conseguenza è sempre la stessa: la procura soccombe con la nomina giudiziale dell’amministratore di sostegno.

La gestione del patrimonio di Caio, nonostante l’accortezza di quest’ultimo, rischia così di passare in mano ad una persona che non è quella prescelta e di discostarsi da quella voluta da Caio.   

Cosa potrà dunque fare Caio per assicurarsi che il suo patrimonio continui ad essere amministrato da una persona di sua fiducia anche nel caso in cui la sua capacità di intendere e di volere venisse meno?

Caio potrà, con l’atto di conferimento della procura oppure con un altro atto pubblico o una scrittura privata autenticata, già designare la persona che dovrà essere nominata quale suo amministratore di sostegno laddove dovessero venire a sussistere i presupposti per ricorrere a questa misura di protezione.

In questo modo Caio potrà assicurarsi che il procuratore continui ad occuparsi della gestione del suo patrimonio ancorché con il diverso ruolo di amministratore di sostegno.

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Consigli Legali

Qualche considerazione sul contratto di noleggio e la sospensione delle attività di cantiere

Pensiamo al nolo (detto anche noleggio), cioè al contratto con cui il noleggiatore mette a disposizione e conferisce il godimento di un bene mobile al noleggiante il quale se ne serve per un periodo determinato e verso il pagamento di un corrispettivo. 

Parliamo, nello specifico, di noleggio a freddo di macchinari o attrezzature di cantiere molto frequente nella pratica quotidiana (es. escavatore, elevatore, piattaforme aeree, gru, ecc.).

Il codice civile non detta la disciplina del noleggio. Per essa occorre rimandare alle norme della locazione di bene mobile tenendo presente, tuttavia, che qui si tratta – più precisamente – di locazione operativa di beni mobili strumentali per cui la causa del contratto non è tanto la loro disponibilità quanto il loro uso per le finalità di cantiere. 

La decretazione d’urgenza più recente ha sospeso, tra le altre, le attività delle imprese edili a meno che non rientrino tra quelle essenziali ovvero si qualifichino come funzionali ad assicurare la continuità delle filiere indicate nella tabella allegata al DPCM 22 marzo 2020. 

Che ne è, quindi, dei canoni di noleggio dei macchinari e delle attrezzature per il periodo di sospensione delle dette attività? 

La modulistica contrattuale prevede l’indicazione dell’uso e della destinazione dei macchinari oggetto di nolo.  Difficilmente però al noleggiatore è dato sapere se, all’attualità, l’attività di quel determinato cantiere sia sospesa oppure rientri tra quelle che rimarranno operative per tutta la durata dell’emergenza. Con la conseguenza che non è in grado di sapere se il bene noleggiato si trovi giacente ed inutilizzato in un cantiere ormai chiuso oppure sia impiegato operativamente per una delle attività essenziali o facente parte della filiera di quelle essenziali. 

Le norme che disciplinano l’impossibilità sopravvenuta [anche temporanea] del noleggiante di utilizzare il bene a nolo, potrebbero condurre ad affermare che l’obbligazione di corrispondere il canone rimanga sospesa fino alla fine dell’emergenza. Ciò vale, specialmente, per l’attrezzatura ed i macchinari rimasti depositati all’interno di un cantiere chiuso ed inaccessibile al noleggiante come può accadere per una gru non facilmente trasferibile in tempi brevi in altro luogo.

A rilevare qui è l’impossibilità sopravvenuta di farne l’uso convenuto.

Orbene, affinchè la sopravvenuta impossibilità di utilizzare il bene invocata dal noleggiante possa essere valutata dal noleggiatore ai fini della sospensione del pagamento del canone, essa dovrà essergli immediatamente formalizzata. A margine di tale comunicazione dovrà – se mai – essere valutata anche l’eventualità (e la materiale possibilità) di una restituzione del macchinario al noleggiatore medesimo (come potrebbe accadere per una piattaforma aerea trasferibile con un certo agio da un luogo ad un altro). 

Per cui nulla quaestio se il noleggiante, rispettoso dell’obbligo di diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto, comunica ufficialmente al noleggiatore tale problematica, rappresentandogli chiaramente le circostanze per le quali il bene è inutilizzabile ed inutilizzato per causa a lui non imputabile: quest’ultimo potrà ritenere di sospendere la fatturazione del canone con buona pace degli interessi del primo. Del resto il non uso del bene ne scongiurerà il consumo. 

Come dovrà comportarsi, invece, il noleggiatore nel caso in cui non gli pervenisse alcuna comunicazione da parte del noleggiante circa l’eventuale sopravvenuta impossibilità di fare uso dei macchinari/attrezzature a nolo?

La prudenza suggerirebbe al noleggiatore di informarsi presso il noleggiante della sospensione o meno delle attività di cantiere.

Diversamente, nel silenzio del suo interlocutore contrattuale, il noleggiatore dovrà presumere operativo il noleggio e quindi dovrà continuare a  fatturare la sua prestazione secondo le scadenze previste nel contratto.

La violazione del generale principio di buona fede contrattuale (ricomprendente l’obbligo informativo e di comunicazione tra le parti di circostanze rilevanti nella esecuzione del contratto) cui la giurisprudenza ha riconosciuto il ruolo di vero e proprio dovere giuridico, può comportare inadempimento del noleggiante e quindi responsabilità per i danni che conseguono al noleggiatore.