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Locazioni ad uso diverso e buona fede del locatore

Abstract

Riflessioni sul comportamento conforme alla buona fede contrattuale e sul divieto di abuso del diritto del creditore in materia di locazione ad uso diverso. Eccezioni e rimedi. 

Introduzione

La pandemia e le norme della decretazione d’urgenza che hanno imposto il lockdown ed il distanziamento sociale hanno minato alla base l’equilibrio sinallagmatico di molti contratti di locazione ad uso diverso.

I conduttori si sono trovati nella impossibilità di accedere agli immobili (si pensi ad esempio ai negozi nei centri commerciali) e di esercitare la loro attività (si pensi ad esempio alle palestre). Il cash flow si è esaurito ed è sopraggiunta la incapacità di far fronte alle ordinarie obbligazioni come quella, per esempio, del pagamento del canone.

Si è letto di tutto sui diritti e gli obblighi dei conduttori, sull’impossibilità sopravvenuta di adempiere e sulla eccessiva onerosità sopravvenuta. 

Assai minore è l’attenzione dedicata alla posizione del locatore. 

Di seguito qualche considerazione al riguardo. 

Obbigo generale di comportarsi secondo buona fede

Il quesito è il seguente: quale è il comportamento che deve tenere il locatore e come può muoversi perché nulla gli possa essere contestato?

Per dare una risposta dobbiamo partire da una rivisitazione del concetto generale di buona fede oggettiva che impone alle parti di comportarsi in modo leale e corretto durante tutta l’esecuzione del contratto.

Più precisamente.

Quanto alla sua origine, questo obbligo si modella sul vincolo di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione che impone a tutte le parti di agire nella reciproca tutela degli interessi riconducibili al contratto al di là di quelli che sono i diritti a ciascuna spettanti. Come a dire che questi ultimi dovranno profilarsi come recessivi rispetto ai primi se, per la ricorrenza di determinate circostanze, il loro esercizio è frutto di capriccio, prepotenza o sopruso.

In particolare, la clausola di buona fede ha assunto nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale tanto la funzione di criterio di valutazione delle condotte quanto quella di strumento di integrazione e ricognizione degli obblighi derivanti dal contratto. 

In questa duplice prospettiva, in che cosa consiste concretamente il comportamento leale e corretto del locatore ai tempi del coronavirus?

Ignorare ostinatamente lo sbilanciamento sopravvenuto tra le prestazioni, resogli noto dal conduttore insieme ad una richiesta di rinegoziazione delle condizioni economiche contrattuali, e pretendere l’intero corrispettivo della locazione senza disporre dell’evidenza della pretestuosità delle difficoltà ostentate dall’altra parte, integra senz’altro un comportamento contrario alla lealtà ed al vincolo di solidarietà di rango costituzionale.

Parimenti, appare contrario a buona fede il comportamento del locatore che rifiuti l’esecuzione di opere indifferibili di manutenzione straordinaria sull’immobile locato opponendo la sospensione del pagamento dei canoni benchè causata dalla chiusura dell’attività nel rispetto della decretazione d’urgenza.  

L’abuso del diritto del creditore

Figura giuridica per più versi intrecciata a quella della buona fede è quella dell’abuso del diritto del creditore. 

Sono presupposti per la sua configurabilità:

  1. che una delle parti sia titolare di un diritto soggettivo;
  2. che possa essere in concreto esercitato con diverse modalità;
  3. che, in fatto, sia esercitato con modalità tale da procurare una sproporzione ingiustificata tra il beneficio che ne ricava il titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte.

E’ il caso del locatore che agisce in giudizio notificando al conduttore lo sfratto per la morosità maturata in periodo di lockdown ovvero che azioni la fideiussione a prima richiesta per recuperare dal garante del conduttore le morosità. 

Qui il proprietario esercita indiscutibilmente il proprio diritto che è quello di ricevere il canone pattuito nel contratto ma lo fa nella consapevolezza e quindi con la volontà di ledere il debitore. 

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. 

Di tutti, minimo comune denominatore è l’arbitrarietà della condotta del creditore astrattamente corrispondente ad una posizione di diritto ma che, travalicandone i limiti, va a ledere la sfera giuridica altrui pretendendo irragionevolmente dal debitore un sacrificio non più affrontabile o non più affrontabile nella misura inizialmente pattuita.

 A queste condizioni, l’interesse sotteso all’esercizio del diritto non è meritevole di tutela.

I rimedi

Laddove la legge non preveda un rimedio tipico all’abuso di un determinato diritto, come nel caso che ci occupa, supplisce l’exceptio doli generalis.

La locuzione latina indica l’eccezione finalizzata a paralizzare l’istanza di tutela di un diritto azionata abusivamente.

La Cassazione Civile del 17/03/2007 n. 5273 chiarisce che l’exceptio doli generalis “[…] costituisce un rimedio di carattere generale, utilizzabile anche al di fuori delle ipotesi espressamente codificate, il quale è diretto a precludere l’esercizio fraudolento o [ndr: anche solo] sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento, paralizzando l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte e giustificando il rigetto della domanda giudiziale fondata sul medesimo, ogniqualvolta l’attore abbia sottaciuto circostanze sopravvenute al contratto ed aventi forza modificativa o estintiva del diritto, ovvero abbia avanzato richieste di pagamento “prima facie” abusive o fraudolente, […].”

L’eccezione in parola ha finalità difensiva poiché mira ad impedire l’accoglimento della domanda fondata sul diritto abusato. E’, nella sostanza, una tutela reale. 

Questo elemento ed altresì la circostanza che in giurisprudenza si sia affermata la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione da parte del Giudice, rendono bene la gravità attribuita a questa condotta. 

Ai fini della prova, è sufficiente la mera conoscenza o conoscibilità della contrarietà alla correttezza del comportamento assunto.

Tutto utile, sì, ma non sufficiente.

Ecco allora che il già spiegato parallelismo tra il divieto dell’abuso del diritto e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, aggiunge alla tutela reale quella obbligatoria fondata sul risarcimento del danno da responsabilità contrattuale. 

Non è da dimenticare, infine, la possibilità di ricorrere all’art. 88 cpc (dovere di lealtà e probità delle parti e dei loro difensori) e all’art. 92 cpc (condanna alle spese per violazione degli obblighi di cui all’art. 88 cpc) che consentirebbe al Giudice investito della domanda di accogliere le conclusioni del creditore ma di condannarlo alle spese che sarebbero dovute rimanere a carico del soccombente.

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Come concludere contratti a prova di Covid-19

Premessa

Con la ripresa delle attività economiche, torniamo necessariamente a concludere contratti, a portare avanti trattative, ad assumere nuovi obblighi. 

Siamo però ancora in un momento di incertezza: sono possibili nuovi lockdown? la redditività di alcune attività ritornerà ai livelli pre Covid? i bisogni e le abitudini dei clienti sono mutati?

Sono, questi, elementi che ci consentirebbero di valutare la convenienza dell’affare e la capacità dei contraenti di rispettare le obbligazioni.    

Tuttavia non è possibile, allo stato, rispondere a queste domande o fare delle previsioni. D’altro canto, però, è anche impensabile rimanere in stand by e attendere tempi migliori: il rischio sarebbe quello di perdere preziose occasioni e di non far ripartire la propria attività in modo adeguato.

La gestione dell’incertezza

Posto che la tutela che rinveniamo nel codice civile per i contratti già in essere nel momento in cui è scoppiata la pandemia non può anche applicarsi ai futuri contratti, la soluzione va ricercata nella previsione e gestione dell’incertezza.

Ciò è possibile elaborando delle clausole già ribattezzate clausole coronavirus attraverso le quali i contraenti, in relazione alle loro esigenze, individuano – ora per allora – i) gli eventi che potrebbero pregiudicare il rapporto contrattuale, ii) il pregiudizio che deve in concreto verificarsi e iii), infine, i meccanismi di tutela ritenuti più opportuni.

Vediamo in concreto come possono operare queste clausole.

L’esperienza ci insegna che ci sono attività che in caso di un aumento di contagi rischierebbero un immediato nuovo lockdown e ciò per effetto delle disposizione di sospensione dell’attività o di restrizioni alla circolazione. Questo significa che dall’oggi al domani potrebbe non essere più possibile rendere alcune prestazioni, ma certo non per fatto e colpa del contraente inadempiente: si tratterebbe, infatti, di una impossibilità pacificamente incolpevole e soprattutto non evitabile.

In questi casi potrebbe far comodo prevedere l’immediata risoluzione del contratto. La parte che non è più in grado di rendere la prestazione si metterebbe così al riparo dal rischio di essere considerata inadempiente e, soprattutto, di dovere un risarcimento danni. L’altra parte, a sua volta, potrebbe avere interesse a non rimanere vincolata ad un contratto che nulla più le dà ed anzi a tornare ad essere libera di ricercare un altro contraente in grado di rendere quella prestazione oppure di optare per altre soluzioni.    

Vi sono poi casi in cui il verificarsi di uno degli eventi sopra citati (es. sospensione di alcune attività o limitazioni alla circolazione), pur non incidendo sulla possibilità di eseguire la prestazione, la renderebbe più gravosa

Cerchiamo di capire con un esempio cosa significa.

Pensiamo alla locazione di un immobile da destinare all’esercizio di un’attività commerciale non soggetta a sospensione e consideriamo il caso, assai frequente, che le parti abbiano convenuto un canone superiore alla media del mercato perché l’immobile è ubicato in una zona particolarmente frequentata (es. all’interno di un centro commerciale o vicino ad una stazione) e ciò rappresenta un beneficio per il conduttore. L’adozione di misure restrittive alla circolazione ridurrebbe però il passaggio di persone e quindi il numero di potenziali clienti. In un siffatto nuovo contesto, l’ubicazione dell’immobile rischierebbe di divenire irrilevante, se non addirittura pregiudizievole e in entrambi i casi il canone diventerebbe eccessivamente oneroso rispetto al nuovo stato di fatto e alla valutazione che può darsi all’immobile. 

In tale situazione le parti possono avere interesse non già a risolvere il contratto (per tornare all’esempio: il conduttore non vuole cessare la sua attività o trasferirsi altrove, né forse il locatore può sperare di trovare un nuovo conduttore disposto a pagare quel canone), piuttosto a rivedere alcune clausole al fine di riequilibrare il valore delle prestazioni.  

Attraverso la clausola coronavirus i contraenti potranno stabilire l’iter da seguire per avviare la rinegoziazione e apportare al contratto tutte quelle modifiche necessarie e sufficienti per mantenerlo in vita nel rispetto dei reciproci interessi

La risoluzione sopraggiungerà solo nel caso in cui la rinegoziazione non dovesse andare a buon fine.

Consideriamo poi un altro caso, quello in cui le parti, prima della conclusione del contratto definitivo, sottoscrivono un preliminare. Può accadere che tra i due contratti intercorrano anche mesi. In questo lasso di tempo potrebbe palesarsi l’antieconomicità dell’intero affare o magari di alcune sue condizioni

Pensiamo alla trattativa per l’acquisto di un ristorante e all’ipotesi che nelle more della sottoscrizione del definitivo emerga che il fatturato del ristorante è molto calato e non vi sono prospettive di una sua ripresa nel breve termine.  

In tal caso la clausola coronavirus dovrebbe mirare a riconoscere un diritto di recesso in capo al soggetto che non ha più interesse a finalizzare la trattativa e sottoscrivere il contratto definitivo. Potrebbe sembrare che questa clausola, a differenza delle altre due, sia concepita per tutelare una sola parte. In realtà così non è. 

Proprio la presenza di una sorta di via di fuga, consente di portare avanti o intraprendere nuove trattative. Attenzione, non si tratta di legittimare un recesso per mere ragioni di convenienza o per escludere la normale alea di rischio legata ad ogni contratto.

La possibilità di tirarsi indietro oppure di alleggerire l’impegno economico a fronte di una sensibile modifica di elementi macro economici, non imputabili alle parti, deve essere infatti sempre ancorata a parametri numerici ben definiti, apprezzabili oggettivamente.

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Social Media Policy Interna: ti spiego perché alle aziende conviene averla

Premessa

I social fanno oramai parte della nostra quotidianità: li usiamo per lavoro, per interagire con gli amici, per farci conoscere.

Ricordiamoci, però, (e qui cito l’amica Roberta Zantedeschi) che virtuale è reale.

Questo significa che anche le pubblicazioni sui profili social espongono il loro autore a responsabilità civili, penali e, se sei un dipendente, anche disciplinari.

Le responsabilità dei dipendenti possono ricadere sul datore di lavoro 

Le condotte social, quando sono fonte di responsabilità, non sempre esauriscono i loro effetti pregiudizievoli a carico del solo lavoratore.

Tutt’altro.

Le aziende, infatti, sanno bene che questi comportamenti rischiano di avere degli strascichi anche in danno del datore di lavoro.

Pensiamo al caso in cui un dipendente abbia diffuso attraverso il suo profilo social informazioni che avrebbero dovuto rimanere confidenziali. Non mi riferisco ai dati sensibili, ma a fatti: ad esempio, la pendenza di trattative (che avrebbero dovuto rimanere ancora riservate) con un nuovo cliente; la perdita di un cliente; la titolarità di un marchio o di un brevetto. 

Ecco, in tali casi l’azienda rischia innanzitutto un danno alla propria reputazione per l’incapacità di preservare la riservatezza delle informazioni. In concreto ciò si traduce nella perdita e mancata acquisizione di nuovi clienti. Ma se la divulgazione di certe informazioni provocasse un danno in capo ad un soggetto terzo (ad esempio l’effettivo titolare del marchio che subisce un danno per la confusione creata circa la titolarità del segno distintivo), l’azienda potrebbe essere ritenuta personalmente responsabile del risarcimento di quel danno e tenuta quindi a sostenere un esborso di denaro.

Non tutto il male vien per nuocere

Le aziende sanno però anche che i dipendenti attraverso i loro profili social personali spesso veicolano le informazioni relative al brand: si tratta di condivisioni spontanee dei contenuti che l’azienda promuove sui propri social istituzionali e che, grazie alla condivisione dei lavoratori, raggiungono un maggior numero di utenti social e quindi di potenziali clienti. 

La condivisione da parte del dipendente, inoltre, viene spesso percepita come un valore aggiunto al contenuto aziendale.

Ovviamente, tanto più le condotte social del dipendente sono improntate al buon senso e al rispetto tanto più i suoi contenuti saranno presi in considerazione e considerati attendibili. A queste condizioni, la condivisione di contenuti aziendali da parte del dipendente rappresenta un beneficio per il datore di lavoro.  

La svolta: saper regolamentare l’uso dei profili social dei dipendenti

C’è uno strumento che consente alle aziende i) di prevenire o quantomeno contenere i rischi conseguenti alle condotte social dei dipendenti e ii) di fare ciò senza  limitare i diritti e le libertà di espressione che le persone esercitano anche attraverso i social e infine iii) di godere dei vantaggi che possono conseguire dalla condivisione dei contenuti del brand attraverso i social personali dipendenti. 

Questo strumento è la Social Media Policy Interna.

Giuridicamente la SMP è un regolamento aziendale attraverso il quale l’azienda stabilisce le regole di condotta cui devono attenersi i dipendenti o i collaboratori quando interagiscono sulle piattaforme social attraverso i propri profili personali.

Come redigere una buona Social Media Policy Interna

La SMP Interna, per essere efficace, presuppone che l’azienda abbia ben presente quali sono i suoi obiettivi (tutelarsi? promuovere il brand? entrambi?), quanto sia diffuso l’uso dei social tra i suoi dipendenti e soprattutto come interagiscono i dipendenti sui social (quale linguaggio utilizzano? quali notizie condividono? quali foto pubblicano? quale messaggio si percepisce scorrendo il loro profilo?).

Quindi la SMP deve essere il frutto di una analisi preventiva, indispensabile perché il regolamento sia in grado di rispondere ai bisogni dell’azienda anche e soprattutto in considerazione delle criticità riscontrate circa l’uso dei social da parte dei dipendenti.

Per questo è auspicabile che nel processo di elaborazione della SMP interna siano coinvolti, quanto più possibile, anche i dipendenti. 

Se il confronto con i lavoratori rivelasse che molti di loro usano i social in modo potenzialmente pericoloso per sé e per l’azienda, quest’ultima dovrebbe prendere in seria considerazione di non limitarsi alla stesura della SMP ma avviare anche un vero e proprio percorso educativo e formativo dei dipendenti all’uso dei social. 

Solo la consapevolezza e la comprensione da parte dei lavoratori dei rischi annessi e connessi all’uso dei social garantiscono il rispetto delle regole della policy. Ed invero in assenza di tale consapevolezza, le sanzioni anche gravi previste nella SMP Interna per il caso di sua violazione potrebbero non essere sufficienti ad impedire ai dipendenti di porre in essere certe condotte. 

E’ importante poi che la SMP Interna contenga regole chiare, di facile comprensione, che non possano essere fraintese.

Con riguardo alle questioni solitamente più delicate quali ad esempio la possibilità per il dipendente di esprimere sui social opinioni in contrasto con alcuni valori o scelte aziendali, è bene che l’azienda non neghi mai il diritto o la libertà ma si concentri sulla regolamentazione del suo esercizio di modo da contemperare i vari interessi: del lavoratore a godere di quel diritto; dell’azienda a non subire pregiudizi e di entrambi a non vedere pregiudicato il rapporto di lavoro.

L’imposizione di divieti da parte dell’azienda, oltre che non risolutiva, rischierebbe di essere illegittima.  

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Assegno divorzile: le sopravvenute novità giurisprudenziali possono giustificare la revisione dell’assegno già riconosciuto?

Abstract

I giustificati motivi invocati dall’art. 9 della L. n. 898/1990 ai fini della revisione del diritto a percepire l’assegno divorzile o del suo ammontare possono essere individuati solo nei fatti sopravvenuti che modificano le condizioni economiche degli ex coniugi e l’assetto patrimoniale sussistenti al momento della pronuncia del provvedimento attributivo dell’assegno. Le nuove interpretazioni giurisprudenziali non sono qualificabili come fatti e quindi non possono legittimare una richiesta di revisione.   

Premessa

Con la sentenza n. 11490 del 1990, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano affermato che l’assegno divorzile di cui all’art. 5 L. n. 898/1990 avesse carattere esclusivamente assistenziale e che il suo presupposto andasse individuato nella inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. 

Tale orientamento è rimasto fermo per quasi un trentennio.

Si fa strada una differente interpretazione

Nel 2017 la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504 della Sezione I Civile, ha affermato che l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge che chiede di poter beneficiare dell’assegno divorzile deve essere valutata alla luce del principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge, da considerarsi ormai come persone singole.

Posto che la ragione dell’esistenza dell’assegno divorzile risiede nell’inderogabile dovere di solidarietà economica post coniugale, solo l’accertamento della condizione di non autosufficienza economica dà diritto a percepirlo.  

In caso di accertata indipendenza o autosufficienza economica del coniuge più debole, non si può riconoscere in suo favore il diritto a percepire l’assegno divorzile ancorché le sue condizioni economiche non siano tali da garantirgli il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

L’autosufficienza, idonea ad escludere il diritto all’assegno divorzile, può essere desunta dal possesso di redditi di qualsiasi specie: es. titolarità di beni mobili e immobili, la disponibilità di una casa di abitazione, la capacità e la possibilità effettive di lavoro personale.

Si afferma un nuovo orientamento

A distanza di circa 30 anni, le Sezioni Unite con la sentenza n. 18287 del 2018 sono nuovamente intervenute per dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto in materia di assegno divorzile. 

Questi i punti cardine in cui si possono riassumere le novità introdotte dalla citata sentenza ed a cui oggi occorre riferirsi al fine di valutare la sussistenza del diritto all’assegno divorzile ed il suo ammontare: 

a) l’assegno divorzile mira a riconoscere al coniuge che lo richiede non solo il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, ma anche il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (natura assistenziale, compensativa e perequativa dell’assegno);

b) l’assegno divorzile non mira alla ricostituzione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo dato dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi;

c) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi in capo al richiedente e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive quali il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, la durata del matrimonio, l’età dell’avente diritto e le potenzialità reddittuali future.

La questione: il nuovo orientamento giurisprudenziale può fondare la richiesta di revisione dell’assegno divorzile?  

Alla luce di questo nuovo orientamento, accade che un ex coniuge tenuto a corrispondere l’assegno divorzile riconosciuto durante la vigenza dell’orientamento del 1990, si rende conto che applicando i nuovi criteri l’ex coniuge beneficiario dell’assegno non avrebbe più diritto a percepire l’assegno, quantomeno non in quella misura, e anche per tale ragione ne chiede la revisione.

E’ questo il caso oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 1119/2020 – I Sezione Civile. 

La Cassazione spiega che la revisione dell’assegno divorzile prevista all’art. 9 L. n. 898/1970 presuppone una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare l’assetto patrimoniale sussistente al momento della pronuncia del provvedimento attributivo dell’assegno. In sede di revisione il giudice non può quindi procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, ma deve limitarsi a verificare se ed in che misura siano sopravvenute circostanze di fatto che abbiano alterato l’equilibrio e, se accertate, adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale-reddituale.

Se il giudice accerta il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali, potrà procedere alla revisione dell’assegno divorzile sulla scorta, questa volta sì, dei rinnovati principi giurisprudenziali. 

La Corte chiarisce che una nuova interpretazione giurisprudenziale non costituisce giustificato motivo idoneo a chiedere la revisione in quanto non è giuridicamente qualificabile come fatto né è fonte normativa.

Se si considerassero gli orientamenti giurisprudenziali quali giustificati motivi si rischierebbe di andare incontro a conseguenze incongrue, sia nell’ipotesi di un successivo ulteriore mutamento giurisprudenziale, sia nell’ipotesi in cui il giudice del merito non aderisse alla nuova linea interpretativa.

Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso dell’ex coniuge che chiedeva la revisione dell’assegno divorzile in forza del nuovo orientamento giurisprudenziale affermatosi ma non offriva alcuna prova circa l’intervenuta modifica delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi rispetto a quelle considerate dal giudice che aveva riconosciuto l’assegno in favore della ex moglie.

Il nuovo orientamento non può quindi inficiare i provvedimenti divenuti definitivi.