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La data nel testamento olografo

Abstract

Il testamento olografo non richiede particolari formalità. Occorre però prestare attenzione a tre requisiti: deve essere scritto integralmente a mano dal testatore; deve essere sottoscritto e deve essere datato. In questo articolo parleremo della data: come va correttamente scritta e le conseguenze della sua omissione o incompletezza.

Premessa

Il testamento olografo è quel tipo di testamento scritto tutto di pugno dal suo testatore.

Non richiede particolari forme solenni, però non devono esserci dubbi sulla sua autenticità e genuinità.

Per questo, ai fini della sua validità, il testatore lo dovrà interamente manoscrivere, datare e sottoscrivere.

In questo articolo mi concentrerò sulla data, che è un elemento che talora rischia di sfuggire al testatore, magari più concentrato ad esprimere le sue ultime volontà.

Cosa si intende per data e qual è la sua funzione

La data serve per stabilire esattamente il giorno, il mese e l’anno di redazione del testamento.

E’ un elemento essenziale per due ragioni:

  • in presenza di più testamenti, consente di stabilire quale sia l’ultimo e quindi quello da considerarsi efficace in quanto corrispondente alle ultime volontà del testatore;
  • in caso di dubbi sulla capacità di intendere e di volere del testatore, consente di stabilire se al momento della redazione del testamento, il suo autore fosse capace o meno.

Come si scrive la data

La data, per disposizione di legge (art. 602 c.c.), va scritta riportando il giorno, il mese e l’anno di redazione del testamento.

E’ valida anche una diversa indicazione della data purché sia equipollente a quella prevista dalla legge.

Ad esempio, se il testatore scrive il giorno del mio 65° compleanno, Natale 2019, Pasqua 2020, si può ricavare precisamente il giorno, il mese e l’anno di redazione del testamento e la disposizione di legge si considera soddisfatta.

La data, inoltre, può essere anche riportata in modo incompleto senza viziare il testamento, purché la sua integrazione possa avvenire attraverso il contenuto delle disposizioni testamentarie.

Dove si scrive la data 

Per la validità del testamento, l’importante è che la data sia scritta sulla scheda testamentaria.

A discrezione del testatore, può essere scritta all’inizio o alla fine delle disposizioni testamentarie, prima o dopo la sottoscrizione del testatore. 

Se il testamento si compone di più fogli non è necessario che sia riportata su ognuno di essi.  

Quando la data si considera mancante o non validamente apposta

La data si considera mancante sicuramente quando non è stata apposta sulla scheda testamentaria e non è ricavabile dalla lettura delle disposizioni testamentarie. 

Se la data è stata apposta solo sulla busta contenente il testamento e non su quest’ultimo, si considera non apposta.

La data cancellata, anche se leggibile sotto la cancellatura, si considera mancante.

E’ da considerarsi incompleta la data che non riporti l’esatta indicazione del giorno, del mese e dell’anno (es. settembre 2018, 07 novembre) e non sia possibile ricavare il dato mancante dalle disposizioni testamentarie.

Ricordiamoci che la possibilità di ricavare la data di redazione del testamento da elementi esterni ed estranei a quest’ultimo, non consente di sopperire alla carenza o incompletezza della data e quindi di far salve le volontà del testatore.

E’ vero che sul punto dottrina e giurisprudenza hanno seguito anche orientamenti meno rigorosi, tuttavia è bene essere prudenti ed evitare di esporsi a contestazioni sulla data: il rischio sarebbe infatti l’impossibilità di dare esecuzione al testamento.

Quindi, ad esempio, se il testatore, non riportasse la data sul testamento ma tra le sue disposizione scrivesse: “lascio a mio figlio i quadri che mi sono pervenuti in seguito alla morte di mio padre, deceduto 20 giorni fa”, sarebbe certamente possibile stabilire la data ma solo facendo riferimento a elementi estranei al testamento (identificazione del padre del testatore e i suoi dati anagrafici) e ciò lo invaliderebbe.

La mancanza della data e l’invalidità del testamento

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 9364/2020 della Sesta Sezione Civile – 2 del 31/10/2019 e depositata il 21/05/2020 ha reso interessanti chiarimenti circa le conseguenze della mancata apposizione della data sul testamento.

L’omessa o incompleta indicazione della data comporta l’annullabilità del testamento olografo.

Con la pronuncia dell’annullamento, cioè, vengono meno gli effetti del testamento, con effetto retroattivo perché l’inefficacia risale al momento della apertura della successione.

Per cui se il testamento annullato, ad esempio, conteneva la nomina di un erede o un legato, queste disposizioni diverranno inefficaci e ciò a vantaggio degli eredi successibili per legge. 

E’ come se il testamento non fosse mai esistito: qualsiasi effetto prodotto dal testamento tra l’apertura della successione e il suo annullamento viene meno.

Viceversa, gli eventuali atti dispositivi compiuti nelle more dell’annullamento da colui che diventerà erede legittimo una volta intervenuto l’annullamento, debbono considerarsi validi ancorché, nel momento in cui sono stati posti in essere, l’erede non era ancora legittimato a porli in essere.     

L’annullabilità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse nel termine di 5 anni decorrenti dalla data in cui le disposizioni testamentarie hanno avuto esecuzione.

Decorsi quindi i 5 anni, il testamento, ancorché viziato con riferimento alla data, non potrà essere più impugnato e i suoi effetti, a favore degli eredi testamentari ed a scapito di quelli legittimi, si cristallizzeranno.

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Quando la bozza di un accordo cessa di essere bozza e diventa vincolante per le parti?

Abstract

La minuta di un accordo diventa vincolante nel momento in cui le parti definiscono tutti i suoi elementi costitutivi o la ritengono efficace come accordo. Nel corso delle trattative occorre quindi che le parti prestino attenzione alle parole usate ed ai comportamenti tenuti onde evitare di vincolarsi prematuramente.

Lo scambio delle bozze e i rischi connessi alla formazione di un vincolo prematuro su contenuti non definitivi

Dovendo formalizzare un accordo per risolvere una controversia o sottoscrivere un contratto, è inevitabile che una parte (c.d. parte diligente) metta nero su bianco le proprie proposte e le inoltri all’altra parte. A questo punto inizia tra le parti uno scambio, più o meno intenso, del testo con modifiche, integrazioni e cancellazioni.

Ma quando la bozza di un accordo cessa di essere tale e diventa vincolante?

Non di rado capita che le parti si scontrino, prima ancora che sul contenuto, sulla vincolatività di un accordo.

Riportare per iscritto i termini di un’intesa serve per evitare fraintendimenti e dimenticanze circa gli impegni assunti e per cristallizzare i punti fermi.

Lo scambio scritto di proposte, inoltre, potrebbe tornare vantaggioso al fine di dimostrare – laddove ve ne fosse bisogno – la propria correttezza e buona fede nel corso delle trattative o contestare quella di controparte.

Guai quindi ad affidarsi ad intese solo verbali.

Dall’altra parte, però, proprio perché le trattative possono essere in continua evoluzione, occorre mettersi al riparo dal rischio di vincolarsi, prematuramente, a contenuti che nelle nostre intenzioni non sono ancora definitivi o completi ed anzi potrebbero essere radicalmente modificati.

Come tutelarsi dunque?

E’ bene capire, innanzitutto, quando la bozza di accordo diventa un accordo a tutti gli effetti.

Il tema è stato recentemente affrontato dalla Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13610 del 02/07/2020 Sezione VI.

Secondo il principio generale, per divenire vincolante la bozza deve essere completa, deve cioè esservi il consenso delle parti su tutti gli elementi costitutivi dell’accordo, quindi sia su quelli principali che secondari. Se manca il consenso su alcuni elementi, la bozza non acquista efficacia di accordo.

Questa regola vale anche per i contratti a formazione progressiva, quelli in cui le clausole si formano gradualmente: le parti prima discutono e raggiungono l’intesa su alcuni punti e solo successivamente passano a discutere degli altri.
Anche in questi casi, la bozza diventa vincolante solo dopo il raggiungimento del consenso sul contenuto di tutte le clausole.
E’ lasciata però alla autonomia delle parti la facoltà di stabilire che le singole clausole, mano a mano che vengono approvate, diventino vincolanti. Il che potrebbe essere opportuno nel caso in cui le clausole approvate stiano in piedi da sole e l’incidenza delle ulteriori sia di poco conto: le parti, infatti, avrebbero in questo modo la certezza di portarsi a casa l’intesa.

Attenzione però: se è vero che la teoria ci dice che una bozza, se incompleta, non può considerarsi vincolante per le parti, in concreto, al fine di stabilire se si è formato un vincolo o meno, occorre considerare anche la condotta tenuta dalle parti successivamente alla formazione della bozza.

Ciò perché, per volontà delle parti, una bozza, anche se incompleta (purché ovviamente contenente gli elementi essenziali) può trasformarsi in un vero e proprio accordo.

Questo accade se le parti hanno espressamente convenuto di considerarsi vincolate alla bozza.

Ricordiamoci che la volontà si può esprimere non solo a parole, ma anche attraverso dei comportamenti.
Pertanto se le parti, pur senza dirsi nulla, hanno dato esecuzione a quanto previsto nella bozza, questa diverrà vincolante.

Per concludere


Le parti dovrebbero, anzitutto, avere l’accortezza di precisare, ad esempio con la comunicazione accompagnatoria dello scambio della bozza, quando questa potrà ritenersi vincolante: una volta steso e concordato il contenuto di tutte le clausole di cui si comporrà l’accordo oppure una volta definito il contenuto di determinate clausole.

In ogni caso, è importante nel corso delle trattative – se il testo dell’accordo è ancora in divenire e incompleto e non ci si vuole vincolare ad esso – evitare di tenere comportamenti che possano essere intesi come adempimento di quanto previsto nella bozza o acquiescenza al suo contenuto.

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Vendita di macchinari, pagamento a rate e tutela del venditore se il prezzo non viene saldato.

Abstract
In un momento di difficoltà ed incertezza economica e finanziaria quale quello attuale, la riserva di proprietà rappresenta un buon compromesso tutelante sia per il venditore sia per l’acquirente nella compravendita di macchinari costosi con pagamento del prezzo dilazionato nel tempo.

Premessa e individuazione della criticità
Ci sono aziende che costruiscono e vendono macchinari anche molto costosi.

Gli acquirenti di questi macchinari non sempre dispongono della liquidità necessaria per pagare l’intero prezzo al momento della consegna. Quindi, in genere, versano un acconto in sede di conferma di ordine e il saldo lo pagano a rate a partire dalla consegna della macchina. L’intero prezzo, se tutto va bene, viene così corrisposto dopo un anno (a volte anche di più) dalla consegna.

Con una vendita pura e semplice l’acquirente diventa a tutti gli effetti proprietario della macchina pur avendo corrisposto solo una parte del prezzo; il venditore, quindi, si spoglia della proprietà pur avendo ricevuto solo un acconto e diventa, di fatto, anche il finanziatore dell’acquirente.

Se l’acquirente non dovesse saldare il prezzo, il venditore perderebbe il macchinario (divenuto di proprietà dell’acquirente) e i soldi.

Che fare, dunque?

Pretendere che l’acquirente paghi tutto e subito sarebbe irrealistico: potrebbe non disporre della liquidità necessaria o non trovare un finanziatore.
I costi e le tempistiche di un finanziamento potrebbero, inoltre, pregiudicare la compravendita e spingere l’acquirente a desistere dall’acquisto oppure a rivolgersi ad un venditore concorrente disponibile a rateizzargli il prezzo.

Il contratto di vendita con riserva di proprietà’ o con patto di riservato dominio: inquadramento
La soluzione sta nel posticipare il momento in cui avviene il passaggio di proprietà del macchinario e ciò è possibile ricorrendo al contratto di vendita con riserva di proprietà o patto di riservato dominio.

Si tratta a tutti gli effetti di un contratto di vendita in forza del quale, però, il venditore rimane proprietario del bene sino al momento del pagamento dell’ultima rata da parte dell’acquirente (art. 1523 c.c.).

La materiale disponibilità del bene (il possesso) passa invece in capo all’acquirente sin dal momento della consegna.

L’utilità del contratto di vendita con riserva di proprietà
Questo tipo di contratto è particolarmente utile quando le parti sottoscrivono un contratto di compravendita e l’acquirente provvede al pagamento del prezzo al venditore in via dilazionata.

Il venditore, infatti, in questo modo, conservando la proprietà ha il diritto di riprendersi il bene se il prezzo non viene integralmente pagato.
Questa tutela si apprezza soprattutto nei casi in cui l’inadempimento dell’acquirente si manifesti poco dopo la consegna: il macchinario è ancora pressoché nuovo e quindi, se recuperato, ricollocabile altrove.

Il compratore, dal canto suo, in questo modo pur non disponendo nell’immediato della liquidità per acquistare il macchinario, ne diventa possessore e lo può utilizzare per la sua attività.

Patto di riservato dominio e forma scritta.
La clausola che prevede la riserva di proprietà deve essere sottoscritta contestualmente al contratto di vendita e ciò per evitare che venditore ed acquirente vi possano ricorrere a posteriori in frode dei creditori del compratore.
Il patto di riservato dominio potrà essere efficace anche se sottoscritto in un momento successivo alla conclusione del contratto di vendita ma solo a condizione che si provi che quella era la volontà originaria delle parti.

Diritti e doveri dell’acquirente e tutele del venditore
L’acquirente, avendone la materiale disponibilità, può utilizzare da subito il bene oggetto della vendita.
Con la consegna, si trasferiscono in capo a lui tutti i rischi connessi alla perdita e al deterioramento del bene, ancorché non ne sia ancora proprietario. Pertanto per l’eventuale perimento del bene, è responsabile l’acquirente che dovrà pagarne in ogni caso l’intero prezzo.

L’acquirente, non essendone proprietario, non potrà invece disporre del bene vendendolo a terzi e se lo facesse sarebbe perseguibile per il reato di appropriazione indebita ai sensi dell’articolo 646 c.p.

Il venditore, per porsi al riparo dal rischio di atti dispositivi dell’acquirente, ai sensi dell’art. 1524 c.c. può trascrivere il patto di riservato dominio in un apposito registro tenuto nella cancelleria del tribunale nella giurisdizione del quale è collocata la macchina. Se, in caso di acquisto da parte di un terzo, la macchina si trovasse ancora nel luogo dove la trascrizione è stata eseguita, il patto sarebbe opponibile anche al terzo acquirente in buona fede.
In ogni caso il patto di riservato dominio è sempre opponibile al terzo in mala fede.

Inoltre il venditore, in quanto proprietario, può invocare l’applicazione di misure cautelari nei confronti del compratore che mette a rischio la restituzione del bene o la sua integrità.

Risoluzione e mancato pagamento del prezzo
La risoluzione del contratto, a meno che non sia consensuale, può avere luogo per il mancato pagamento di più rate o anche di una sola rata solo se questa rappresenti più dell’ottava parte del prezzo pattuito (art. 1525 c.c.).

Questa disposizione è inderogabile a sfavore dell’acquirente. Anche le clausole che pattuiscono la decadenza del compratore dal beneficio del termine delle rate successive sono nulle, sempre che la rata impagata non superi l’ottava parte del prezzo.

Di fatto, però, anche un inadempimento superiore al limite di 1/8 del prezzo o il mancato pagamento di più rate non comporta automaticamente il diritto in capo al venditore ad ottenere la risoluzione del contratto, atteso che è prima necessario valutare la situazione complessiva, come la possibile insolvenza del debitore, la diminuzione o la perdita delle garanzie, etc.

Va poi considerato che la risoluzione dà diritto al venditore a reclamare:
i) l’eventuale risarcimento del danno rappresentato da un irregolare uso del bene o da una alterazione della sua funzionalità e
ii) un equo compenso, cioè un corrispettivo per l’uso fatto dall’acquirente.

Qui occorre fare una riflessione: poiché il venditore rientra nel possesso della macchina, l’equo compenso potrebbe risultare inferiore all’ammontare delle rate pagate dall’acquirente e ciò obbligherebbe il venditore a restituire parte di quanto percepito.
Il venditore, quindi, dovrà attentamente valutare non solo se sussistono i presupposti per domandare la risoluzione del contratto ma anche la convenienza della risoluzione.
Se le rate pagate dall’acquirente sono poche, la risoluzione potrebbe sicuramente giovare (anche perché si recupererebbe un macchinario ancora utilmente collocabile sul mercato) e il rischio di restituzione sarebbe contenuto se non addirittura assorbito dall’equo compenso.
Viceversa, maggiore prudenza andrà adottata nel caso in cui l’inadempimento del compratore si manifesti a metà o addirittura verso la fine della dilazione.
Il venditore, per porsi al riparo dall’obbligo di restituzione di parte del prezzo, potrebbe essere indotto a prevedere nel contratto il diritto a trattenere a titolo di indennità le rate già pagate. Siffatta clausola, tuttavia, non è in assoluto tutelante: il giudice eventualmente adito dall’acquirente potrebbe infatti disporre la riduzione dell’indennità pattuita sino a farla divenire un equo compenso (art. 1526 c.c.).

La domanda di risoluzione, quindi, andrà ben ponderata a prescindere da ciò che hanno pattuito le parti nel contratto.

Fallimento o pignoramento dell’acquirente.
Il patto di riservato dominio si rivela una idonea tutela per il caso di fallimento o di pignoramento mobiliare subito dall’acquirente. Siffatto patto, infatti, impedisce che il bene entri a far parte del patrimonio dell’acquirente e che, pertanto, venga aggredito per il soddisfacimento di altri crediti.

Per poter opporre il patto di riservato dominio ai creditori dell’acquirente e proteggere quindi il bene dal rischio di essere pignorato da costoro oppure opporlo al fallimento dell’acquirente, l’atto che contiene la riserva di proprietà deve avere data certa anteriore al pignoramento (art. 1524 codice civile) e alla dichiarazione di fallimento o apertura di altra procedura concorsuale.

La prova della data certa anteriore può essere data dallo scambio tramite PEC del contratto sottoscritto o dalle fatture aventi data certa (es. fatture elettroniche) e registrate nelle scritture contabili.

In conclusione
Vero è che il patto di riservato dominio richiede una maggiore attenzione in fase di stesura e formalizzazione del contratto al fine soprattutto della data certa e ben può essere che incontri il dissenso del potenziale acquirente il quale vorrà divenire proprietario del bene subito (salvo pagare il prezzo in via dilazionata), tuttavia, soprattutto in un momento di difficoltà ed incertezza economica e finanziaria quale quello attuale, la riserva di proprietà potrebbe rappresentare un buon compromesso tutelante sia per il venditore sia per l’acquirente.

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Come concludere contratti a prova di Covid-19

Premessa

Con la ripresa delle attività economiche, torniamo necessariamente a concludere contratti, a portare avanti trattative, ad assumere nuovi obblighi. 

Siamo però ancora in un momento di incertezza: sono possibili nuovi lockdown? la redditività di alcune attività ritornerà ai livelli pre Covid? i bisogni e le abitudini dei clienti sono mutati?

Sono, questi, elementi che ci consentirebbero di valutare la convenienza dell’affare e la capacità dei contraenti di rispettare le obbligazioni.    

Tuttavia non è possibile, allo stato, rispondere a queste domande o fare delle previsioni. D’altro canto, però, è anche impensabile rimanere in stand by e attendere tempi migliori: il rischio sarebbe quello di perdere preziose occasioni e di non far ripartire la propria attività in modo adeguato.

La gestione dell’incertezza

Posto che la tutela che rinveniamo nel codice civile per i contratti già in essere nel momento in cui è scoppiata la pandemia non può anche applicarsi ai futuri contratti, la soluzione va ricercata nella previsione e gestione dell’incertezza.

Ciò è possibile elaborando delle clausole già ribattezzate clausole coronavirus attraverso le quali i contraenti, in relazione alle loro esigenze, individuano – ora per allora – i) gli eventi che potrebbero pregiudicare il rapporto contrattuale, ii) il pregiudizio che deve in concreto verificarsi e iii), infine, i meccanismi di tutela ritenuti più opportuni.

Vediamo in concreto come possono operare queste clausole.

L’esperienza ci insegna che ci sono attività che in caso di un aumento di contagi rischierebbero un immediato nuovo lockdown e ciò per effetto delle disposizione di sospensione dell’attività o di restrizioni alla circolazione. Questo significa che dall’oggi al domani potrebbe non essere più possibile rendere alcune prestazioni, ma certo non per fatto e colpa del contraente inadempiente: si tratterebbe, infatti, di una impossibilità pacificamente incolpevole e soprattutto non evitabile.

In questi casi potrebbe far comodo prevedere l’immediata risoluzione del contratto. La parte che non è più in grado di rendere la prestazione si metterebbe così al riparo dal rischio di essere considerata inadempiente e, soprattutto, di dovere un risarcimento danni. L’altra parte, a sua volta, potrebbe avere interesse a non rimanere vincolata ad un contratto che nulla più le dà ed anzi a tornare ad essere libera di ricercare un altro contraente in grado di rendere quella prestazione oppure di optare per altre soluzioni.    

Vi sono poi casi in cui il verificarsi di uno degli eventi sopra citati (es. sospensione di alcune attività o limitazioni alla circolazione), pur non incidendo sulla possibilità di eseguire la prestazione, la renderebbe più gravosa

Cerchiamo di capire con un esempio cosa significa.

Pensiamo alla locazione di un immobile da destinare all’esercizio di un’attività commerciale non soggetta a sospensione e consideriamo il caso, assai frequente, che le parti abbiano convenuto un canone superiore alla media del mercato perché l’immobile è ubicato in una zona particolarmente frequentata (es. all’interno di un centro commerciale o vicino ad una stazione) e ciò rappresenta un beneficio per il conduttore. L’adozione di misure restrittive alla circolazione ridurrebbe però il passaggio di persone e quindi il numero di potenziali clienti. In un siffatto nuovo contesto, l’ubicazione dell’immobile rischierebbe di divenire irrilevante, se non addirittura pregiudizievole e in entrambi i casi il canone diventerebbe eccessivamente oneroso rispetto al nuovo stato di fatto e alla valutazione che può darsi all’immobile. 

In tale situazione le parti possono avere interesse non già a risolvere il contratto (per tornare all’esempio: il conduttore non vuole cessare la sua attività o trasferirsi altrove, né forse il locatore può sperare di trovare un nuovo conduttore disposto a pagare quel canone), piuttosto a rivedere alcune clausole al fine di riequilibrare il valore delle prestazioni.  

Attraverso la clausola coronavirus i contraenti potranno stabilire l’iter da seguire per avviare la rinegoziazione e apportare al contratto tutte quelle modifiche necessarie e sufficienti per mantenerlo in vita nel rispetto dei reciproci interessi

La risoluzione sopraggiungerà solo nel caso in cui la rinegoziazione non dovesse andare a buon fine.

Consideriamo poi un altro caso, quello in cui le parti, prima della conclusione del contratto definitivo, sottoscrivono un preliminare. Può accadere che tra i due contratti intercorrano anche mesi. In questo lasso di tempo potrebbe palesarsi l’antieconomicità dell’intero affare o magari di alcune sue condizioni

Pensiamo alla trattativa per l’acquisto di un ristorante e all’ipotesi che nelle more della sottoscrizione del definitivo emerga che il fatturato del ristorante è molto calato e non vi sono prospettive di una sua ripresa nel breve termine.  

In tal caso la clausola coronavirus dovrebbe mirare a riconoscere un diritto di recesso in capo al soggetto che non ha più interesse a finalizzare la trattativa e sottoscrivere il contratto definitivo. Potrebbe sembrare che questa clausola, a differenza delle altre due, sia concepita per tutelare una sola parte. In realtà così non è. 

Proprio la presenza di una sorta di via di fuga, consente di portare avanti o intraprendere nuove trattative. Attenzione, non si tratta di legittimare un recesso per mere ragioni di convenienza o per escludere la normale alea di rischio legata ad ogni contratto.

La possibilità di tirarsi indietro oppure di alleggerire l’impegno economico a fronte di una sensibile modifica di elementi macro economici, non imputabili alle parti, deve essere infatti sempre ancorata a parametri numerici ben definiti, apprezzabili oggettivamente.

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Social Media Policy Interna: ti spiego perché alle aziende conviene averla

Premessa

I social fanno oramai parte della nostra quotidianità: li usiamo per lavoro, per interagire con gli amici, per farci conoscere.

Ricordiamoci, però, (e qui cito l’amica Roberta Zantedeschi) che virtuale è reale.

Questo significa che anche le pubblicazioni sui profili social espongono il loro autore a responsabilità civili, penali e, se sei un dipendente, anche disciplinari.

Le responsabilità dei dipendenti possono ricadere sul datore di lavoro 

Le condotte social, quando sono fonte di responsabilità, non sempre esauriscono i loro effetti pregiudizievoli a carico del solo lavoratore.

Tutt’altro.

Le aziende, infatti, sanno bene che questi comportamenti rischiano di avere degli strascichi anche in danno del datore di lavoro.

Pensiamo al caso in cui un dipendente abbia diffuso attraverso il suo profilo social informazioni che avrebbero dovuto rimanere confidenziali. Non mi riferisco ai dati sensibili, ma a fatti: ad esempio, la pendenza di trattative (che avrebbero dovuto rimanere ancora riservate) con un nuovo cliente; la perdita di un cliente; la titolarità di un marchio o di un brevetto. 

Ecco, in tali casi l’azienda rischia innanzitutto un danno alla propria reputazione per l’incapacità di preservare la riservatezza delle informazioni. In concreto ciò si traduce nella perdita e mancata acquisizione di nuovi clienti. Ma se la divulgazione di certe informazioni provocasse un danno in capo ad un soggetto terzo (ad esempio l’effettivo titolare del marchio che subisce un danno per la confusione creata circa la titolarità del segno distintivo), l’azienda potrebbe essere ritenuta personalmente responsabile del risarcimento di quel danno e tenuta quindi a sostenere un esborso di denaro.

Non tutto il male vien per nuocere

Le aziende sanno però anche che i dipendenti attraverso i loro profili social personali spesso veicolano le informazioni relative al brand: si tratta di condivisioni spontanee dei contenuti che l’azienda promuove sui propri social istituzionali e che, grazie alla condivisione dei lavoratori, raggiungono un maggior numero di utenti social e quindi di potenziali clienti. 

La condivisione da parte del dipendente, inoltre, viene spesso percepita come un valore aggiunto al contenuto aziendale.

Ovviamente, tanto più le condotte social del dipendente sono improntate al buon senso e al rispetto tanto più i suoi contenuti saranno presi in considerazione e considerati attendibili. A queste condizioni, la condivisione di contenuti aziendali da parte del dipendente rappresenta un beneficio per il datore di lavoro.  

La svolta: saper regolamentare l’uso dei profili social dei dipendenti

C’è uno strumento che consente alle aziende i) di prevenire o quantomeno contenere i rischi conseguenti alle condotte social dei dipendenti e ii) di fare ciò senza  limitare i diritti e le libertà di espressione che le persone esercitano anche attraverso i social e infine iii) di godere dei vantaggi che possono conseguire dalla condivisione dei contenuti del brand attraverso i social personali dipendenti. 

Questo strumento è la Social Media Policy Interna.

Giuridicamente la SMP è un regolamento aziendale attraverso il quale l’azienda stabilisce le regole di condotta cui devono attenersi i dipendenti o i collaboratori quando interagiscono sulle piattaforme social attraverso i propri profili personali.

Come redigere una buona Social Media Policy Interna

La SMP Interna, per essere efficace, presuppone che l’azienda abbia ben presente quali sono i suoi obiettivi (tutelarsi? promuovere il brand? entrambi?), quanto sia diffuso l’uso dei social tra i suoi dipendenti e soprattutto come interagiscono i dipendenti sui social (quale linguaggio utilizzano? quali notizie condividono? quali foto pubblicano? quale messaggio si percepisce scorrendo il loro profilo?).

Quindi la SMP deve essere il frutto di una analisi preventiva, indispensabile perché il regolamento sia in grado di rispondere ai bisogni dell’azienda anche e soprattutto in considerazione delle criticità riscontrate circa l’uso dei social da parte dei dipendenti.

Per questo è auspicabile che nel processo di elaborazione della SMP interna siano coinvolti, quanto più possibile, anche i dipendenti. 

Se il confronto con i lavoratori rivelasse che molti di loro usano i social in modo potenzialmente pericoloso per sé e per l’azienda, quest’ultima dovrebbe prendere in seria considerazione di non limitarsi alla stesura della SMP ma avviare anche un vero e proprio percorso educativo e formativo dei dipendenti all’uso dei social. 

Solo la consapevolezza e la comprensione da parte dei lavoratori dei rischi annessi e connessi all’uso dei social garantiscono il rispetto delle regole della policy. Ed invero in assenza di tale consapevolezza, le sanzioni anche gravi previste nella SMP Interna per il caso di sua violazione potrebbero non essere sufficienti ad impedire ai dipendenti di porre in essere certe condotte. 

E’ importante poi che la SMP Interna contenga regole chiare, di facile comprensione, che non possano essere fraintese.

Con riguardo alle questioni solitamente più delicate quali ad esempio la possibilità per il dipendente di esprimere sui social opinioni in contrasto con alcuni valori o scelte aziendali, è bene che l’azienda non neghi mai il diritto o la libertà ma si concentri sulla regolamentazione del suo esercizio di modo da contemperare i vari interessi: del lavoratore a godere di quel diritto; dell’azienda a non subire pregiudizi e di entrambi a non vedere pregiudicato il rapporto di lavoro.

L’imposizione di divieti da parte dell’azienda, oltre che non risolutiva, rischierebbe di essere illegittima.  

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Assegno divorzile: le sopravvenute novità giurisprudenziali possono giustificare la revisione dell’assegno già riconosciuto?

Abstract

I giustificati motivi invocati dall’art. 9 della L. n. 898/1990 ai fini della revisione del diritto a percepire l’assegno divorzile o del suo ammontare possono essere individuati solo nei fatti sopravvenuti che modificano le condizioni economiche degli ex coniugi e l’assetto patrimoniale sussistenti al momento della pronuncia del provvedimento attributivo dell’assegno. Le nuove interpretazioni giurisprudenziali non sono qualificabili come fatti e quindi non possono legittimare una richiesta di revisione.   

Premessa

Con la sentenza n. 11490 del 1990, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano affermato che l’assegno divorzile di cui all’art. 5 L. n. 898/1990 avesse carattere esclusivamente assistenziale e che il suo presupposto andasse individuato nella inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. 

Tale orientamento è rimasto fermo per quasi un trentennio.

Si fa strada una differente interpretazione

Nel 2017 la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504 della Sezione I Civile, ha affermato che l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge che chiede di poter beneficiare dell’assegno divorzile deve essere valutata alla luce del principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge, da considerarsi ormai come persone singole.

Posto che la ragione dell’esistenza dell’assegno divorzile risiede nell’inderogabile dovere di solidarietà economica post coniugale, solo l’accertamento della condizione di non autosufficienza economica dà diritto a percepirlo.  

In caso di accertata indipendenza o autosufficienza economica del coniuge più debole, non si può riconoscere in suo favore il diritto a percepire l’assegno divorzile ancorché le sue condizioni economiche non siano tali da garantirgli il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

L’autosufficienza, idonea ad escludere il diritto all’assegno divorzile, può essere desunta dal possesso di redditi di qualsiasi specie: es. titolarità di beni mobili e immobili, la disponibilità di una casa di abitazione, la capacità e la possibilità effettive di lavoro personale.

Si afferma un nuovo orientamento

A distanza di circa 30 anni, le Sezioni Unite con la sentenza n. 18287 del 2018 sono nuovamente intervenute per dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto in materia di assegno divorzile. 

Questi i punti cardine in cui si possono riassumere le novità introdotte dalla citata sentenza ed a cui oggi occorre riferirsi al fine di valutare la sussistenza del diritto all’assegno divorzile ed il suo ammontare: 

a) l’assegno divorzile mira a riconoscere al coniuge che lo richiede non solo il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, ma anche il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (natura assistenziale, compensativa e perequativa dell’assegno);

b) l’assegno divorzile non mira alla ricostituzione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo dato dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi;

c) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi in capo al richiedente e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive quali il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, la durata del matrimonio, l’età dell’avente diritto e le potenzialità reddittuali future.

La questione: il nuovo orientamento giurisprudenziale può fondare la richiesta di revisione dell’assegno divorzile?  

Alla luce di questo nuovo orientamento, accade che un ex coniuge tenuto a corrispondere l’assegno divorzile riconosciuto durante la vigenza dell’orientamento del 1990, si rende conto che applicando i nuovi criteri l’ex coniuge beneficiario dell’assegno non avrebbe più diritto a percepire l’assegno, quantomeno non in quella misura, e anche per tale ragione ne chiede la revisione.

E’ questo il caso oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 1119/2020 – I Sezione Civile. 

La Cassazione spiega che la revisione dell’assegno divorzile prevista all’art. 9 L. n. 898/1970 presuppone una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare l’assetto patrimoniale sussistente al momento della pronuncia del provvedimento attributivo dell’assegno. In sede di revisione il giudice non può quindi procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, ma deve limitarsi a verificare se ed in che misura siano sopravvenute circostanze di fatto che abbiano alterato l’equilibrio e, se accertate, adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale-reddituale.

Se il giudice accerta il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali, potrà procedere alla revisione dell’assegno divorzile sulla scorta, questa volta sì, dei rinnovati principi giurisprudenziali. 

La Corte chiarisce che una nuova interpretazione giurisprudenziale non costituisce giustificato motivo idoneo a chiedere la revisione in quanto non è giuridicamente qualificabile come fatto né è fonte normativa.

Se si considerassero gli orientamenti giurisprudenziali quali giustificati motivi si rischierebbe di andare incontro a conseguenze incongrue, sia nell’ipotesi di un successivo ulteriore mutamento giurisprudenziale, sia nell’ipotesi in cui il giudice del merito non aderisse alla nuova linea interpretativa.

Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso dell’ex coniuge che chiedeva la revisione dell’assegno divorzile in forza del nuovo orientamento giurisprudenziale affermatosi ma non offriva alcuna prova circa l’intervenuta modifica delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi rispetto a quelle considerate dal giudice che aveva riconosciuto l’assegno in favore della ex moglie.

Il nuovo orientamento non può quindi inficiare i provvedimenti divenuti definitivi.

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Covid-19: il diritto di visita ai figli

La pandemia in atto ha costretto, giocoforza, molti genitori separati o divorziati a rivedere le condizioni relative al diritto di visita ai figli: è infatti innegabile che quanto convenuto per gestire ben altre situazioni ed esigenze, possa ora non solo essere inadeguato, ma rivelarsi addirittura pericoloso.

IL DIRITTO DI VISITA AI FIGLI DA PARTE DEL GENITORE SEPARATO/DIVORZIATO NON COLLOCATARIO IN TEMPO DI PANDEMIA DA COVID-19

Il problema che per primo si è posto è quello relativo all’esercizio del diritto di visita da parte del genitore non collocatario.

La decretazione d’urgenza e gli interventi chiarificatori del Governo sull’argomento, sono sempre stati rassicuranti: le limitazioni alla libertà di circolazione anche tra un Comune e l’altro possono essere legittimamente derogate dal genitore non collocatario per l’esercizio del suo diritto di visita ai figli. Diritto che, ove richiesto, deve essere adeguatamente comprovato esibendo la sentenza di separazione o divorzio, il verbale di omologa della separazione o il verbale dell’udienza presidenziale e l’autocertificazione.

Astrattamente, quindi, l’esercizio del diritto di visita è salvo.

In concreto, tuttavia, l’esercizio di tale diritto può essere tutelato se non si pone in contrasto con le normative vigenti a tutela della salute e quelle finalizzate al contenimento dei contagi da Covid-19.

Dopo i primi provvedimenti in cui si riconosceva tutela al diritto del genitore non collocatario di poter continuare a vedere e stare con i figli (es. ordinanza del Tribunale di Milano dell’11/03/2020), alcuni Tribunali, investiti della questione, hanno corretto il tiro fissando rigidi paletti all’esercizio del diritto di visita.

Sotto questo profilo è interessante la recente ordinanza del 26 marzo 2020 del Tribunale di Bari che ha accolto l’istanza di una madre che chiedeva la sospensione del diritto di visita del padre il quale risiedeva in un altro Comune.

Le motivazioni che fondano la decisione del Tribunale si rinvengono nelle limitazioni alla libertà di circolazione per motivi di sanità (art. 16 Cost.) e nel diritto alla salute individuale e collettivo (art. 32 Cost).

Nel caso di specie il Tribunale ha anzitutto ritenuto che lo spostamento del genitore e del figlio da un Comune all’altro non sarebbe avvenuto nel rispetto delle condizioni di prudenza e sicurezza stabilite dai DPCM del 09/03/2020, dell’11/03/2020, del 21/03/2020 e del 22/03/2020.

Pertanto, stante le ragioni sanitarie sottese alle limitazioni alla libertà di circolazione delle persone imposte dai citati DD.PP.CC.MM, il Tribunale ha disposto il temporaneo sacrificio del diritto di visita del padre e del figlio.

Altra ragione a fondamento della sospensione del diritto di visita sta nell’esigenza di garantire la tutela del diritto alla salute che per il Tribunale di Bari significa non solo tutela della salute del minore, ma anche delle persone che con lui convivono. Il diritto alla salute risponde infatti sia ad interesse individuale che della collettività, come precisa l’art. 32 Cost. 

Nel caso di specie, il Tribunale ha così disposto la sospensione del diritto di visita tra padre e figlio poiché non ha potuto escludere che il minore, durante la permanenza con il padre, fosse esposto ad un rischio sanitario con il conseguente pericolo certamente di ammalarsi ma anche di contagiare le persone che convivevano con lui. 

Per quanto, ai genitori separati o divorziati tra cui sorgano contestazioni circa l’esercizio del diritto di visita ai figli da parte del genitore non collocatario in questo particolare contesto emergenziale, si suggerisce di accertare se la frequentazione dei figli possa avvenire in sicurezza o meno.

Nella prima ipotesi, non vi sarebbero ragioni per impedire al genitore non collocatario di continuare a vedere e stare con i figli: è il caso, ad esempio, del genitore che sia a casa dal lavoro e che non tenga condotte rischiose.

Nella seconda ipotesi, invece, l’esercizio del diritto di visita è destinato a soccombere temporaneamente. Si pensi, ad esempio, al caso del genitore che svolga un’attività lavorativa a rischio contagio, ovvero al caso del genitore che coltivi frequentazioni a rischio o ancora al genitore che non si curi di rispettare le regole di prevenzione.

Il diritto di visita, tuttavia, anche nel caso in cui il suo esercizio sia destinato ad essere fortemente compresso, non necessariamente deve rimanere lettera morta.Come disposto dal Tribunale di Bari, potrà essere esercitato, ove possibile, in modo alternativo. Ad esempio attraverso lo strumento della videochiamata: il genitore non collocatario ed il figlio potranno così vedersi e parlarsi attraverso l’uso di strumenti telematici per tutto il tempo di quella che avrebbe dovuto essere la “visita” tradizionale.